Marco Neirotti, La Stampa 31/5/2015, 31 maggio 2015
QUEL PRIMO REPORTAGE DAL “TUNNEL DELLA MALATTIA”
Otto parole colmarono di stupore e sgomento l’Italia: «Ho un cancro e lo so. Parliamone insieme». Era il 1972, il tumore era spettro dell’irreparabile e non si osava chiamarlo per nome, meglio «male del secolo». La gente se ne andava come senza una ragione, giacché pochi conoscevano diagnosi e prognosi. E se ne andava dopo calvari in strutture non al passo, pazienti tra i pazienti, i camici chini sul corpo e non sulla persona.
«Ho un cancro e lo so. Parliamone insieme», scrisse su La Stampa Gigi Ghirotti, inviato di cronaca e d’inchiesta, aprendo un reportage, «Lungo viaggio nel tunnel della malattia», che proseguì anche in televisione e divenne libro. Vicentino, uomo ironico, dolce e roccioso, meticoloso e poetico, Ghirotti a 52 anni seppe subito la verità: linfoma di Hodgkin, che non si aggrediva come oggi, si «inseguiva» nel suo cammino. Quella sera accompagnò a casa l’amico e collega Vittorio Gorresio (che a sua volta fisserà analoga esperienza negli articoli e nel libro «Costellazione Cancro») e nella passeggiata in piazza Navona anziché conforto gli chiese di caldeggiare un reportage dagli ospedali pubblici del suo imminente peregrinare. Dal tunnel di tanti voleva fare quello che aveva fatto sempre sulla cronaca, la politica, il costume. Voleva farlo essendo uno di loro, con il geometra Elio, il ragazzo di borgata Equilio, il tranviere Rocco, «tutti in palandrana e pianelle, il viso color tra il grigio e il giallognolo».
In pigiama e vestaglia si accucciava in un angolo di corridoio per non disturbare picchiando sui tasti, un fattorino veniva a ritirare i fogli oppure lui li dettava dal telefono a gettoni come quando scriveva del «delitto del bitter» o del successo di Mike Bongiorno. E al giovane amico redattore Alberto Sinigaglia, che quelle testimonianze avrebbe «passato» e titolato, scandiva: «Ragazzo, al lavoro. Perché ho ancora le mie forze. Il signor Hodgkin la troverà dura».
Narrava quanto buio fosse per pazienti ignari giacché si riteneva che la diagnosi potesse indurre suicidi, quanta sofferenza perché si centellinava la morfina, quanta tristezza tra locali squallidi e cibo freddo. Cronista delle grandi e piccole cose, perché quello era il suo mestiere: «Se gli capita di correre un’avventura tra vita e morte in prima persona e poi non la racconta, direi che quel giornalista è uno che non ha capito nulla. Né del proprio mestiere, né dei propri doveri di cittadino». Annotava: «E’ sconvolgente pensare che negli ospedali, dove più sarebbe indispensabile la tutela della personalità umana dagli sgarbi, dalle negligenze, dall’arroganza degli interessi in conflitto, proprio negli ospedali questa tutela non esiste. Basta che l’uomo s’ammali, che sia disteso su un lettino, e subito gli "immortali principi" dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla malattia e alle armi per debellarla, se ne vanno in briciole».
Gigi Ghirotti è morto il 17 luglio 1974, a 53 anni, dopo aver sbriciolato la parete di paura e orrore che custodiva «il male del secolo». Da cronista ha illuminato una palude di inadeguatezza e solitudine e ha sprigionato consapevolezza, l’ha infusa nelle vene sociali come una chemioterapia delicata, mostrando che una lotta stremante e dall’esito incerto, se non lasciata a se stessa, è comunque ancora vita.
Marco Neirotti, La Stampa 31/5/2015