Silvia D’Onghia, il Fatto Quotidiano 30/5/2015, 30 maggio 2015
TROPPI CHEF IN TV? IL RESTO È PEGGIO
[Intervista a Antonino Cannavacciuolo] –
Hai presente un’impepata di cozze che diventa un raviolo al limone con San Marzano crudo e crema di cozze, ma senza le cozze? Ecco, questo è un piatto che comunica. Se mi fai un semplice rollè di tacchino con le zucchine dentro, non mi dici niente”. Si fa un po’ fatica a seguire Antonino Cannavacciuolo mentre parla di cucina, e dei piatti che crea, perché ci si rende conto che è davvero la realtà a superare la fantasia. Una realtà a due stelle Michelin, tre forchette del Gambero Rosso e tre cappelli dell’Espresso che si chiama “Villa Crespi”. Di nuovo impegnato nella terza stagione di Cucine da incubo (ogni martedì alle 21 su FoxLife) e prossimo quarto giurato di Masterchef, lo chef burbero ma simpatico (il più simpatico di quelli che si vedono in tv, non c’è dubbio) è un fiume in piena anche quando deve parlare di sé.
Cannavacciuolo, 40 anni fa – quando lei è nato, a Vico Equense – la cucina era considerata diversamente da oggi. Come le è nata questa passione?
Mio padre insegnava alla scuola alberghiera e, per starmi vicino, mi portava con sé nelle sue cucine e alle feste di gala. Mia madre, che pur stava in casa, girava con la giacca da cuoco o con il camice. Mettici che io sono uno curioso, mi piace scoprire, assaggiare, girare e il mestiere è fatto.
Si ricorda il suo primo piatto?
La prima volta ho preparato i biscotti di pasta frolla, ma il primo piatto pensato è stata una coscia di coniglio con gli scampi. Prendo la cucina come un gioco, cerco l’emozione di sapori che ho conosciuto a Napoli, per poi riportarli in un piatto, ma con un’altra ricetta. Ci deve essere una storia da raccontare, un profumo, un ricordo, un contatto con la natura, attimi che tornano alla mente. I piatti devono comunicare.
Lei vive, da napoletano, sul lago d’Orta, nel Novarese. Un bel mix.
Ero già al Nord quando conobbi mia moglie. All’inizio tornai per un periodo al Quisisana, a Capri, poi in Francia. Facevo avanti e indietro. Poi nel 1999 prendemmo in gestione Villa Crespi.
Vorrebbe che i suoi due figli seguissero la sua strada?
È difficile dirlo, perché da genitore come fai, sbagli. Dovrò sforzarmi di essere obiettivo, per capire se sono portati a fare questo lavoro o se lo vogliono fare perché ci sono io. Però una cosa non farò: dare loro dei divieti. Una persona deve sbagliare con le sue gambe, perché l’errore può essere la sua fortuna.
In Cucine da incubo la vediamo spesso nei panni del burbero, che cazzia i ristoratori. È così davvero o è il suo personaggio?
In realtà ci sono anche momenti di dolcezza, di riso, di emozioni. Cannavacciuolo è entrambe le cose: sono la persona più buona al mondo, ma non mi devi far girare i coglioni.
Come vive il rapporto con la tv?
All’inizio ero talmente teso da avere male ai polpacci per quanto schiacciavo i piedi a terra. La telecamera fa brutti scherzi, ci devi andare sempre preparato, conoscere i tempi, non devi mai apparire stanco.
C’è stata una puntata che l’ha particolarmente emozionata?
Quella presso “A Lanterna” di don Gallo, a Genova (andata in onda il 26 maggio, ndr). In chiusura di puntata abbiamo messo tutti gli oggetti del don in una stanza, e lui era là con noi. L’hanno avvertito tutti.
Non crede che in tv si parli troppo di cucina?
La gente è stanca, vuole rilassarsi, ridere, vedere qualcosa di bello e di meno impegnativo. Per anni la tv ha proposto solo argomenti stancanti.
Si riferisce ai talk show?
(ride) …l’hai detto tu, non io… Ti giro la domanda: dimmi cosa dobbiamo guardare. Il cinema? Non si fanno film in Italia. Il calcio? Poi si scopre che le partite sono truccate…
Mi dà una definizione del cibo?
Il cibo è tutto, se entri nel sentimento del cibo non esci più. Poche persone lo capiscono. Puoi andare nel posto più bello del mondo, ma se mangi male non ci tornerai più. Il cibo ti regala emozioni che ti rendono felice.
Non le pare una filosofia un po’ in contrasto con la povertà del mondo?
Ognuno di noi deve fare la sua parte, infatti, fare un passo indietro e guardarsi intorno. Magari comprarsi un telefono in meno e fare qualcosa per gli altri. Non amo dirlo, ma ho creato un fondo per fare il pane in Africa. Se lo facciamo tutti, qualcosa cambia.
Le è mai capitato che un cliente dicesse: “Questo piatto non mi piace?”
Può capitare anche stasera, è il bello del gioco. La critica è strumento di riflessione. Poi bisogna considerare una cosa: la cucina non è per tutti, nel senso che quello che cucino io può non sposarsi con il gusto o l’abitudine di un cliente. Io posso commettere questi errori: temperatura, salatura, cottura e acquisto degli ingredienti. Ma se questi elementi sono rispettati, allora il piatto va bene.
Cosa direbbe a un ragazzo che vuole cominciare oggi?
Che deve sporcarsi le mani, deve andare nelle stalle a mungere le mucche, o a rovistare nella terra per toccare i prodotti. Solo questo può insegnare la sensibilità.
Silvia D’Onghia, il Fatto Quotidiano 30/5/2015