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 2015  maggio 30 Sabato calendario

SABINO CASSESE “CON DON CHISCIOTTE ALLA CORTE COSTITUZIONALE”

[Intervista] –
Nove anni mica tanto facili. Dal 2005 al 2014, periodo in cui Sabino Cassese è stato Giudice Costituzionale, la Corte ha dovuto pronunciarsi su temi che hanno infuocato i partiti e diviso gli italiani, dal lodo Alfano, al caso Previti, al Porcellum, madre d’ogni confusione elettorale. Di tutto questo arduo decidere e rigettare, il giurista campano, ex ministro della Funzione Pubblica, dà conto in un «Diario» che si intitola Dentro la Corte perché narra dall’interno, in capitoletti, sedute, contrasti, sentenze coraggiose o compiacenti verso la politica, con dotte considerazioni sul Diritto che deve imbrigliare l’enorme complessità del reale, dal fine vita, agli immigrati, alla vaccinazione del bestiame. Non mancano gli scappellotti a colleghi che si concedono «pennichelle pomeridiane» troppo lunghe, e le nerbate ai magistrati in «delirio d’onnipotenza» che lottano per non ridursi gli stipendi, o a giudici di pace e giudici tributari «ignoranti» che «fanno a gara nell’inviare questioni mal poste».
Un Diario certamente indiscreto (anche se Cassese non svela nomi), perché mai prima d’ora si è sbirciato oltre le mura della Consulta avvolte da un riserbo assoluto, ma appassionatamente rispettoso verso una sentinella irrinunciabile della nostra vita repubblicana. Anche se certe inerzie della Corte e la sua poca «trasparenza» si potrebbero migliorare, a partire dalla «dissenting opinion». Un Diario intenso, problematico, e umanissimo che si apre con un cenno a Moby Dick, e si chiude sulle «note» della Winterreise di Schubert: «Sono giunto da straniero,/da straniero me ne vo».
Dato che ogni scrittore è anche lettore, ci sono stati modelli ispirativi, magari inconsci, durante la stesura?
«Ho avuto due compagni di viaggio silenziosi ma immensi. Le massime di La Rochefoucauld, un catalogo di «sentenze morali» nato come gioco di società nei salotti secenteschi. Tweet imperituri su vizi e virtù umane. E il Petit Dictionnaire des grands hommes de la Révolution di Rivarol (fine traduttore di Dante), capace di esercitare un’ironia micidiale su statisti, rivoluzionari, intellettuali attraverso dettagli, tic, particolari fisiognomici.
Nel suo «Diario» non mancano passaggi severi verso le toghe. C’è anche il paragone di un collega con il Peeperkorn della «Montagna magica» di Mann: chi è, se si può essere indiscreti?
«Può scorticarmi vivo, mai lo rivelerò. Ma con quel paragone gli ho fatto un piacere. Certo, Peeperkorn parla in maniera solenne per non dire mai nulla; e quando inizia un discorso non riesce mai a concluderlo perché si perde nelle sue stesse parole. Ma a suo modo è un saggio, ed è dotato di una vitalità prorompente, dionisiaca. È un personaggio interessante, non passa inosservato».
Credo invece non abbia problemi a rivelare il suo amore per Thomas Mann…
«La letteratura tedesca è stata predominante negli anni dell’Università. Mann, Goethe, Musil... Con il viatico di un’opera meravigliosa e unica: la Storia della letteratura tedesca del Mittner, che posseggo nella versione con la copertina rilegata in tela azzurra. Apri uno di quei volumoni ed entri in un mondo che mescola letteratura, pittura, società, filosofia, destini umani».
Come lei, che ama mescolare i saperi e le letture.
«La separazione delle discipline, dico sempre ai miei allievi, è fatta per vincere le cattedre universitarie. Mi piace leggere tutto, con una voracità che sfiora la bulimia. Un vizio accessorio è la chiosatura. Ogni libro diventa per me un immenso campo da mietere. Appunto frasi, brani, riflessioni. Ne nascono libri di libri, faldoni di parole, quelli che gli antichi chiamavano “Loci communes” (ottimi serbatoi di citazioni sempre a portata di mano). Ho per esempio una mia personale “versione” della Recherche. Ogni tanto la rileggo: non il testo di Proust, bensì i brani che ho trascritto a mano».
Sbirciando un pizzino d’appunti che prima aveva accanto, ho scorto il nome di Kierkegaard.
«Ha visto bene. C’è stato un momento in cui l’ho amato moltissimo. Così come Munch, nell’arte figurativa. Poi l’ho dimenticato. Rapidamente sostituito dal ‘700 francese. Questo le dà l’idea di un’oscillazione tra una visione tragica della vita e una solare».
Che cos’è per lei la lettura?
«Intanto è quasi un dovere. Plinio il Vecchio nella Storia naturale scriveva: “Nulla dies sine linea”. Una frase del pittore Apelle, che non lasciava trascorrere giorno senza tratteggiare una linea col pennello. Per me non esiste giornata senza un rigo scritto».
Che rotte ha seguito sul mappamondo delle lettere?
«Dopo l’università mi sono spostato nettamente verso la cultura francese e spagnola. La prima, veicolata da Tocqueville. Ho letto quasi tutta la Correspondance, decine di volumi. Non aveva figli, ma un nipote che adorava e riempiva di consigli. Saggezze di vita quotidiana, notazioni magnifiche sulla storia francese, sul diritto amministrativo... Alcuni brani andrebbero mandati a memoria. Poi viene Stendhal: per la fantasia; Flaubert: per la finezza di scrittura. Borges è una dolce (biblio)mania. Possiedo una collezione che è più completa delle sue “opere complete” pubblicate in Argentina: edizioni fuori commercio, altre con dediche autografe di suo pugno, scovate tra i bouquinistes di Buenos Aires. In Spagna ho incontrato Don Chisciotte che, come dicono gli iberici, deve essere letto tre volte in una vita. Da giovane, a metà, e alla fine. E solo l’ultima volta lo capisci davvero. Insegna tanto sulla vanità umana, un’ottima bussola nelle turbolenze della vita».
Altri romanzi da rileggere nelle diverse età della vita?
«I promessi sposi, Il rosso e il nero, L’educazione sentimentale, Guerra e pace... Rileggendo Anna Karenina ho scovato pagine che la prima volta non avevo apprezzato. Quando Anna, per esempio, si avvia in carrozza verso il suicidio e passa in mezzo al pubblico la scrittura sembra un montaggio alternato di Griffith».
Un Cassese cinefilo…
«Avevo la collezione completa di Cinema Nuovo. Per i casi della vita Aristarco venne ad abitare al piano sotto casa mia a Roma: quando scoprì che ero abbonato alla sua rivista diventammo amici».
Ha fama di possedere una biblioteca sterminata.
«Oltre ventimila volumi che occupano, o meglio soffocano, un appartamento, nel quale non riesco più a vivere. Per ciascun libro nuovo seguo la regola ferrea “one in, one out”. Ogni quindici giorni c’è un borsone che esce per finire alla biblioteca dell’università di Viterbo».
Da quale libro non si separerebbe mai?
«Quesito inammissibile».
Questa è diplomazia costituzionalista: un livre de chevet?...
«Croce e Gramsci. Il Croce storico più che il filosofo; il “public moralist” che parla a un pubblico di uomini colti. Gramsci, invece, tutto. Lo lessi mentre veniva pubblicato negli anni 50. E poi quel filo rosso che risale a Leopardi, a Vico, unendo saggisti, moralisti, storici».
Quanto legge all’anno?
«Centinaia di libri. Ma ci sono tanti modi. Alcuni si sfogliano. Altri s’iniziano dal fondo. Altri s’annusano. Altri si leggono e rileggono, pulendosi il becco, come diceva Proust. Altri si accumulano per le vacanze estive. Altri si appoggiano vicino al letto per meditarli. Altri restano buone intenzioni».
Ci sono anche letture coatte?
«Sono giurato allo Strega e dodici libri all’anno me li devo sorbire. Perché debbo votare».
Dunque le pesano?
«Il mio giudizio è fondamentalmente negativo. La maggior parte sembrano più sceneggiature pensate per la tv che romanzi: tanti dialoghi, e poche azioni, pochi pensieri».
Nessuno assolto?
«Giordano. Un titolo indovinatissimo. Nessuno sa cosa sia la solitudine dei numeri primi, ma vuole immaginarla. Salvo anche Piccolo. Perché sa narrare e perché coltiva l’arte del distacco ironico. Il personaggio femminile, che poi è la moglie, sminuisce continuamente, invita a non prendere nulla sul serio. Una boccata d’aria fresca».
Nel «Diario» ricorre Kelsen...
«Ovviamente il Kelsen giuridico è stata una mia lettura costante e oggetto di critiche. Ma anche i suoi due schizzi autobiografici, in uno dei quali rievoca la sua permanenza alla Corte austriaca, la prima d’Europa. Contribuì a crearla, ma anche a metterla in crisi perché suggerì a un avvocato di portare il caso di un marito sostanzialmente “bigamo” sperando che aprisse la strada al divorzio in Austria. Suscitò una tale reazione negli ambienti cattolici che la Corte fu attaccata cancellata e ricostruita su altre basi, più deboli, tant’è che non ci volle più entrare. Anch’io, come Kelsen, racconto i miei nove anni alla Consulta. Sono stato critico, ma ne ho riconosciuto la funzione fondamentale. Vorrei che si umanizzasse di più. La toga nera dei suoi componenti è una metafora perfetta: dietro quel colore si nasconde tutto. Bisogna uscire dalla condizione di una Corte che non si apre, non si fa leggere, si esprime come dio sul Sinai che detta le tavole».
Il nome «Cassese» è legato alla riforma e allo snellimento (anche nel linguaggio) della pubblica amministrazione: quali sono i romanzi che meglio raccontano la farraginosa assurdità della burocrazia?
«Non Kafka o Frassineti, e neppure Balzac, ma il libro di un giurista italiano che si è scoperto ottimo romanziere, Alfonso Celotto, il cui libro Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, è insieme un quadro del disastro della legislazione, delle perversioni della burocrazia e dell’eccellenza di alcuni nostri burocrati».
Bruno Ventavoli, TuttoLibri – La Stampa 30/5/2015

Dentro la corte, di Sabino Cassese (Il Mulino), pp. 319, euro 22