Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 30 Sabato calendario

ADDIO CARO PETISSO ULTIMO SHOWMAN DEL CALCIO ITALIANO

Ma tu quanti gol hai segnato, Petisso, gli chiedevano i ragazzini. E lui sottile rispondeva: «Quanti Pelé». In realtà pochini, ma uno contro l’Inter, palla nell’angolo alto alla destra di Matteucci, era diventato la sigla della Domenica Sportiva per mille puntate. E dunque erano più di mille i gol, facile, nella logica stralunata dell’ultimo showman del calcio italiano. Da una quindicina d’anni Bruno Pesaola girava gli ospedali, cinquanta sigarette al giorno gli avevano avvelenato vene e polmoni, colorandogli le dita di giallo nicotina. Pensava a una festa per i novant’anni, a fine luglio, nella sua casa a Napoli, città in cui aveva scelto di restare per sempre non avendo potuto decidere di nascervi: 531 partite sotto quei colori da calciatore e allenatore. Ha vinto di più altrove, come lo scudetto del ’69 a Firenze, l’ultimo viola. Ma la salvezza del 1983 a Napoli all’ultima giornata era «la gioia più grande della vita dopo il matrimonio con Ornella», ex miss Novara, la ragazza che lo aveva spinto al sud: «Ci lavora mio fratello, andiamo, si sta bene». Viaggio di nozze a Positano e poi in ritiro.
Da Buenos Aires era arrivato ventiduenne, figlio di un calzolaio di Macerata e di una spagnola, un fratello calciatore a cui il rinculo di un cannone durante il servizio di leva aveva distrutto una gamba. Uomo di mondo, avrebbe detto Totò. Pesaola era amico di Dapporto e Rascel, Walter Chiari lo chiamò per un film, Tata Giacobetti (Quartetto Cetra) voleva fargli sposare sua sorella. «Ho fatto l’attore nel calcio». A lui è ispirato il personaggio del Molosso, l’allenatore che apre “L’uomo in più” di Sorrentino con una scenata nello spogliatoio. Gli aneddoti che regalava alla corte notturna di giocatori di carte e compagni di whisky si dividevano in storie già vere e altre che lo diventavano. Come lo schiaffo a un compagno che aveva osato fare tunnel a Schiaffino. O quel giornale che aveva dato la notizia della sua morte e lui aveva chiamato il cronista: «Come al solito hai esagerato». Ma non era una macchietta: una Coppa Italia vinta a Bologna, una a Napoli (che era in B). Dopo uno 0-3 contro di lui Herrera disse: «Giocano da campioni del mondo». La sua voce era una cantilena. «Solo a Napoli capiscono le mie battute» confessò a Mimmo Carratelli, suo biografo in “Il tango del Petisso”. La più celebre per un Bologna-Atalanta tutto in difesa dopo aver promesso calcio d’attacco: «Ci hanno rubato la idea». Una vitalità trasmessa a suo figlio Roberto, autore di tv e teatro con lo pseudonimo di Zap Mangusta. La morte era per Pesaola “la porta nera”. «Ma sono stato più grande di Maradona. Di un centimetro». E rideva.
Angelo Carotenuto, la Repubblica 30/5/2015