Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 30/5/2015, 30 maggio 2015
L’INGANNO DELLA SPAGNA
È solo un fuoco di paglia, la ripresa dell’economia spagnola, in attesa che inizi a sperimentare il costo del risanamento finanziario, una medicina che l’Italia conosce sin dal 1992. Dal +2,5% di quest’anno, il Pil crescerà solo del 2% nel 2016, per scendere al +1,8% nel 2017. La crescita spagnola è stata drogata dal deficit di bilancio, che ormai si deve ridurre.
Il peggio deve ancora venire, visto che il debito pubblico di Madrid è cresciuto linearmente in questi anni, e che ormai sfiora il 100% del Pil, dopo aver accumulato ben 64 punti a partire dal 2007. Un record europeo, secondo solo a quello dell’Irlanda, dovuto da una parte all’onere di 60 miliardi di euro contratto con l’Esm (il fondo salva-Stati) per il salvataggio delle banche, ma anche a un deficit di bilancio che negli anni 2008-2015 è stato in media pari al 7,7% del Pil. Ancora nel 2014, il deficit pubblico spagnolo è stato del 5,8%, mentre quest’anno dovrebbe scendere al 4,3%.
Il rientro dal debito eccessivo sarà lungo e faticoso: assorbirà tutte le risorse della crescita rendendola anemica, con pesanti conseguenze sull’occupazione. In Italia, tanto per fare il confronto, il saldo primario della PA è tornato positivo sin dal 2012, dopo un solo anno di passivo.
La crescita del Pil spagnolo non ha avuto grande impatto sul livello di disoccupazione, che ancora quest’anno sarà pari al 22,6%. Un tasso praticamente doppio rispetto a quello italiano, con la disoccupazione giovanile spagnola che ha superato la soglia del 50%.
Difficile stupirsi del malessere popolare, palesatosi alle elezioni amministrative: i cittadini guardano al posto di lavoro e non alle statistiche del Pil. La Spagna non tornerà mai più al benessere drogato dal debito estero, contratto dopo l’ingresso nell’euro. L’effetto euro è stato devastante per i saldi esteri spagnoli: mentre nel periodo 1980-1989 aveva accumulato un passivo pari all’8,9% del Pil (in media l’1% l’anno), nel periodo 1990-2000 aveva già duplicato questo deficit, giunto al 21,5%. Nel periodo 2001-2008, il disavanzo cumulato è ulteriormente raddoppiato, arrivando al 51,9% (in media il -6,5% annuo) con il picco del -9,6% raggiunto nel 2007.
La Spagna ha importato di tutto, accumulando uno stock di debito verso l’estero arrivato a 1.078 miliardi di euro nel 2008, rispetto a un Pil di 1.600 miliardi. Il ritiro del credito estero è stato violento, visto che già a fine 2012 era dimezzato a 569 miliardi di euro. La finanza tedesca, come era già successo in Grecia, era di casa: in Spagna è passata da 39,2 miliardi di investimenti di portafoglio nel 2001 a 230 miliardi di fine 2009, per scendere a 169 miliardi a fine 2013. L’Esm, che ha fornito alla Spagna le risorse per evitare il default delle sue banche, si è sostituito come creditore, evitando guai ben peggiori alle banche dei Paesi che si erano esposte verso Madrid.
Questa è la vera solidarietà dell’Eurozona, quella che fa salvi i crediti esteri delle banche, specie quelle francesi e tedesche, scaricandoli sulle collettività nazionali. Ovvio, quindi, che la Gran Bretagna non abbia aderito all’Esm. Nonostante tutte le decisioni volte a liberalizzare il mercato del lavoro e ad aumentare la competitività estera abbassando i salari, il saldo della bilancia dei pagamenti di Madrid non è in grado di recuperare risorse consistenti. Il riequilibrio commerciale è stato drastico: nel 2014 il saldo corrente è stato attivo per 8,5 miliardi di euro (0,3% del Pil), ma all’orizzonte del 2020 si prevede che non supererà il +1,1%. Il passivo per trasferimenti di redditi, che è stato di 28,8 miliardi, è determinato dal costo degli interessi sugli investimenti stranieri.
Al di là della disoccupazione endemica, il grado di concentrazione territoriale del malessere sociale, che ha dato luogo a una brusca riduzione del consenso verso i partiti tradizionali nelle recenti elezioni amministrative, può essere stimato dalla lettura dei dati relativi alle procedure fallimentari: nel primo trimestre dell’anno, su 1.560 casi registrati a livello nazionale (di cui ben 1.460 su base volontaria dell’imprenditore), la metà dei casi ha riguardato la Catalogna (301), dalla Comunità di Madrid (256) e da quella di Valencia (250). Non casualmente, sono queste le città in cui è stata più forte l’avanzata delle nuove formazioni politiche. I
l quadro politico spagnolo si è sfrangiato, superando il tradizionale bipolarismo, su cui si innesta l’autonomismo catalano. Il governo di Mariano Rajoy si trova in difficoltà, soprattutto in vista delle elezioni politiche di novembre: non ha compreso che il dato della disoccupazione, come era già successo alle elezioni in Grecia, rappresenta un fattore dirompente e ha puntato solo alla reputazione europea, come il suo omologo greco Antonis Samaras, che si è visto surclassato da Alexis Tsipras. Ci sono cambiamenti in vista, contro i baroni: anche a Madrid ci potrebbe essere dietro l’angolo una rottamazione della classe dirigente. Facile cavalcare il malcontento che nasce dalla disoccupazione e dai fallimenti, sfruttandolo per dare addosso alla vecchia classe dirigente.
Il punto è comprendere quale sia la funzione di un governo: l’obiettivo di ridurre la disoccupazione al 6% ha sempre rappresentato la stella polare della Federal Reserve e dell’amministrazione Obama, così come è stato per la Banca di Inghilterra e il premier David Cameron. Se anche la cancelliera Angela Merkel governa indisturbata da anni, e addirittura la Spd è tentata dal non presentare un proprio candidato per sostituirla alle prossime elezioni, è per via del tasso di disoccupazione della Germania, ai livelli più bassi di sempre. In nessuno di questi Paesi, meno di tutti in Germania, è stata usata la disoccupazione di massa per abbassare i salari e aumentare la produttività. Al contrario, è stata assorbita con sistemi di occupazione a tempo parziale e precario, ampiamente assistiti dalle pubbliche finanze. Solo Cameron è stato confermato alle elezioni, dopo aver contestato tutto della recente politica europea, dal Fondo Salva Stati al Fiscal Compact, fino alla Banking Union. E ora si accinge a lanciare un referendum sulla permanenza nell’Ue. Nel resto dell’Unione cadono le prime teste: dopo il greco Samaras, è stata la volta del presidente polacco Bronislaw Komorowsky in Polonia, scalzato da Andrzej Duda, anche lui, come Tsipras, meno incline a obbedire senza discutere.
L’élite cosmopolita che si vanta della propria reputazione a Bruxelles tende ad assottigliarsi, ma i nuovi movimenti di opposizione sembrano costruiti a tavolino, per mettere un velo di maionese sullo stesso pane. Rinnovano una divisione sociale di comodo: buttata via la distinzione destra-sinistra, che metteva i lavoratori contro i padroni, adesso ci sono i giovani che sono defraudati dagli anziani, e così i «nuovi» soppiantano i «vecchi». Come nel ’68, il sistema di potere vellica il ribellismo giovanile per celarsi meglio: ogni tanto, c’è bisogno di una buona potatura per rafforzare la pianta. A novembre si vota in Spagna.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 30/5/2015