Giampaolo Visetti, la Repubblica 31/5/2015, 31 maggio 2015
PACIFICO, ALTA TENSIONE TRA USA E CINA
A settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il Pacifico minaccia di ritornare il palcoscenico dello scontro globale tra le super-potenze economiche del secolo. Sul fronte occidentale ci sono ancora gli Stati Uniti, su quello orientale la Cina post-comunista ha preso il posto del Giappone ex filo-nazista. A riaccendere la miccia del conflitto per il controllo di una delle aree commerciali ed energetiche più ricche e strategiche del pianeta, sono gli arcipelaghi contesi del Mar cinese meridionale, che si aggiungono a quelli del Mar cinese orientale. Pechino considera propri gli atolli delle Spratly, Nansha in mandarino, rivendicati anche da Vietnam, Filippine, Taiwan e Brunei. La stessa rivendicazione viene avanzata dai cinesi anche per l’arcipelago Diaoyu-Senkaku, conteso a Giappone e Taiwan.
Washington, alleata dei Paesi asiatici che si sentono minacciati dall’espansionismo cinese, sostiene che al contrario le isole della discordia si trovano in acque internazionale e che dunque nessuno ne può disporre come fossero casa propria. A infiammare lo scontro, riaperto da mesi, l’improvviso irrigidimento degli Usa, decisi a elevare una disputa regionale al livello di conflitto internazionale. La scorsa settimana il Pentagono ha inviato a sorvolare le Spratly un jet di sorveglianza P-8A della propria marina, respinto dall’aviazione cinese. Ieri, a Singapore, il segretario americano alla Difesa, Ashton Carter, ha puntato il dito contro Pechino, intimando di «fermare immediatamente e permanentemente costruzioni e rivendicazioni contrarie sia al diritto che alle norme internazionali ».
Nell’ultimo anno, incurante delle proteste, la Cina ha accelerato la realizzazione di piste d’atterraggio, porti, caserme, edifici, strade e fari sulle isole contese. Militari e civili stanno trasformando in isole artificiali gli scogli a pelo d’acqua, bonificando i fondali sabbiosi meno profondi e sfruttando la barriera corallina per costruire infrastrutture. Immagini della sorveglianza Usa hanno rivelato ieri che Pechino ha posizionato armi pesanti su almeno una delle isole artificiali ultimate ai primi di maggio, smentendo l’assicurazione di una bonifica «ad esclusivo uso civile». Carter ha ammesso che avamposti in arcipelaghi contesi sono stati realizzati anche da Vietnam, Filippine, Malesia e Taiwan, ma riferendosi alla Cina ha sottolineato che «c’è un Paese che si è spinto oltre e più rapidamente degli altri, costruendo in 18 mesi più ettari di tutti i pretendenti messi assieme».
La risposta di Pechino è stata di una durezza che ha pochi precedenti. Il portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, ha dichiarato che «nessuno ha il diritto di dire alla Cina cosa fare» e che gli Usa «ricorrono a silenzi selettivi e a due pesi due misure per gettare benzina sul fuoco nel Pacifico nel tentativo di contenere la Cina ». Il colonnello Zhao Xiaozhuo, a Singapore, ha definito «prive di fondamento» le accuse di Carter, assicurando che Pechino non ha alcuna intenzione di «obbedire agli ordini degli Usa, decisi a gettare nel caos l’Asia per difendere i propri interessi». La tivù di Stato ha definito l’avanzata nel Mar cinese meridionale «la realizzazione della più importante linea avanzata della nazione », osservando che «dal punto di vista della sovranità, costruire sugli atolli equivale a realizzare infrastrutture in una qualsiasi regione cinese». Il governo ha giustificato la proiezione marittima sostenendo che «la Cina si trova ad affrontare una serie di gravi e complesse minacce alla propria sicurezza » e che gli avamposti serviranno anche «per farsi carico delle nuove responsabilità internazionali». Il libro bianco della difesa rivela che «per salvaguardare la sicurezza nazionale» aviazione e marina, per la prima volta, potranno «proiettare potenza» oltre i confini marittimi e gli spazi aerei cinesi. Per il Pentagono ciò significa che «Pechino è pronta per sostenere il suo primo conflitto globale per il dominio di rotte commerciali e giacimenti di materie prime nel Pacifico». La tensione Cina-Usa, riaccesa dagli scontri con Giappone, Hong Kong e penisola coreana, non era tanto alta dalla crisi di Taiwan e la comunità internazionale è in allarme per il timore che la situazione, anche accidentalmente, sfugga di mano alla diplomazia. «Se la linea Usa è che la Cina deve fermarsi e obbedire – ha avvertito il Quotidiano del Popolo – una guerra nel Mar cinese meridionale è inevitabile». Il presidente Xi Jinping, come il collega Usa Barack Obama, è il primo non volere un conflitto armato, ma dallo Zhejiang ha ripetuto che «occorre un nuovo ordine mondiale, non determinato da potenze in declino e in via di arretramento dal Pacifico». Ai partecipanti al summit sulla sicurezza asiatica è parso un suggerimento ai bellicosi vicini di casa, per indurli a scaricare il vecchio alleato occidentale e a saltare sul carro della nuova potenza egemone dell’Oriente. Le grandi manovre militari attorno agli arcipelaghi intanto non si fermano. Round decisivo, a meno che la strategia della provocazione non sfugga di mano, in settembre alla Casa Bianca, con il faccia a faccia Obama-Xi.