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 2015  maggio 30 Sabato calendario

IN MEMORIA DI UNA COLF FILIPPINA

Corazon Peres Abordo lavorava dieci ore al giorno tutti i giorni, tranne la domenica, da ventisette anni. Si alzava presto, portava a scuola le figlie adolescenti, andava in metropolitana a lavorare a Prati, quartiere altoborghese, usciva alle sei di sera, riprendeva la metropolitana e tornava a Primavalle, il quartiere popolare dove viveva. Mercoledì sera aveva fatto tardi – mezza Roma era allagata da un temporale –, e si stava affrettando per rientrare.
In casa, una comunità allargata ai parenti, come suoneria del cellulare avevano la sigla del Tg5, perché le otto di sera era l’ora in cui si trovavano finalmente tutti insieme.
Mancavano pochi minuti al telegiornale, quando Corazon è stata travolta e schiacciata dall’auto con i tre rom a bordo. Il vicesindaco Nieri ha assicurato che il Comune di Roma pagherà il rimpatrio della salma a Baco, il paese del Mindoro orientale dove Corazon era nata 45 anni fa (avrebbe festeggiato il compleanno giovedì prossimo). Il sindaco Marino non c’era: si era portato a Philadelphia a ritirare una laurea honoris causa. Il sindaco Marino è sfortunato: quando a Roma succede qualcosa di molto serio, non c’è mai. Tra i feriti, i più gravi sono altre due donne filippine: una ha avuto un’emorragia cerebrale, l’altra ha quasi tutte le ossa rotte.
Nella chiesa dei filippini, la basilica di Santa Prudenziana, costruita nell’antica Suburra sopra le catacombe che accolsero san Pietro, si prega per Corazon e per le altre vittime. È un posto molto bello, in cui è bene andare ogni tanto. Le fedeli sono soprattutto donne, all’apparenza tutte uguali, lo stesso sguardo impassibile e dignitoso. L’età si capisce dalle mani. Quasi nessuna conosceva la vittima; i filippini di Roma sono 65 mila; ma è come se la conoscessero tutti, visto che tutti fanno o hanno fatto il suo lavoro. I filippini non hanno parole di odio ma sono pervasi da un dolore profondo, segnato dall’idea che le loro vite non valgano nulla.
Diciamo la verità: quanto sarebbe più acuta la nostra rabbia, e più profonda la nostra indignazione, se le vittime fossero italiane?
Eppure la tragedia di Roma ha avuto sull’opinione pubblica un impatto più forte che un mese di polemiche sui candidati impresentabili. È il fatto più importante della campagna elettorale, anche se forse non cambierà l’esito delle elezioni. Celentano, da vecchio auscultatore dell’animo nazionale, se n’è subito accorto.
Del resto, Salvini ha fatto la sua campagna elettorale sui rom e sull’immigrazione clandestina. Subito si sono sentiti i toni prevedibili: l’integrazione si fa con le ruspe. E con altrettanta prontezza si è levata la retorica uguale e contraria: quanto sono razzisti gli italiani di periferia, come sono ineleganti le loro reazioni. Ma per un energumeno che invoca giustizia sommaria e inevitabilmente attira taccuini e telecamere, i cronisti hanno raccolto correttamente decine di sfoghi di cittadini esasperati per la convivenza forzata con nomadi che «ogni giorno fanno piangere una persona», «fanno sparire borse e documenti», «quando li beccano li rilasciano subito», «te li ritrovi davanti e ti fanno il dito medio».
Gli zingari sono da sempre un bersaglio facile. E con il clima di esasperazione che si è creato, è importante evitare reazioni emotive, a cominciare dalle spedizioni punitive di cui già si parla nelle vie di Roma. Ma nello stesso tempo è fondamentale ripristinare la legalità.
L’Italia è il Paese dell’impunità del male. Gli stranieri candidamente lo riconoscono: in tanti arrivano perché si può rubare impunemente e se anche ti prendono sei subito fuori. È chiaro che la grande maggioranza non viene qui per delinquere. Ma è altrettanto chiaro che l’Italia allenta i freni inibitori di coloro che vi arrivano (dagli hooligan olandesi che devastarono indisturbati il centro di Roma ai turisti anglosassoni che in queste sere ne fanno un pub e un orinatoio a cielo aperto).
Occorre far funzionare la macchina della giustizia, occorre dare alle forze dell’ordine gli strumenti per fare il loro lavoro. E soprattutto occorre non dimenticare Corazon. Perché qui tutti parlano di rom, di ruspe, di Salvini; ma nessuno parla dell’anello più debole della catena: la vittima. Che proprio non meritava, dopo aver lavorato per noi 27 anni, di morire così.
È possibile che tra qualche decennio, quando i figli dei filippini (essendo più motivati dei nostri) saranno avvocati, imprenditori, politici, questo tempo sarà ricordato dai loro padri come l’età eroica, in cui una comunità si costruì un destino pulendo le scale del quartiere Prati. E Corazon Peres Abordo sarà il simbolo di quanto sia stato duro lavorare in Italia, non tanto per l’accoglienza degli italiani, quanto per l’incapacità di fare del loro Paese un luogo giusto e sicuro.