Chuck Klosterman, GQ 6/2015, 29 maggio 2015
IL NONNO DEL ROCK
[Jimmy Page]
Per essere un mago di settantuno anni, Jimmy Page ha un aspetto fantastico. Quindici anni fa, chissà come, sembrava più vecchio di oggi. Il nostro primo incontro è al Gore Hotel, a tre minuti dalla Royal Albert Hall e non lontano da casa di Page a Kensington, Londra. Vestito di nero, con i capelli bianchi tirati all’indietro, Page è un modello di riserbo e dignità. È l’architetto dei Led Zeppelin, il gruppo hard rock più importante del pianeta, e chi vuole ancora credere alla vecchia leggenda per cui avrebbe venduto l’anima al diavolo, può tranquillamente continuare a farlo.
Sentire oggi i Led Zeppelin alla radio non è più difficile di quanto lo fosse nel 1973. Camminando per i viali di un college, la probabilità di incrociare ragazzi che indossano magliette della band è uguale a quella di incontrare ragazzi in cerca di erba. A quanto pare non ci sarà mai un’epoca in cui i Led Zeppelin non saranno famosi. E il merito, a 34 anni dallo scioglimento del gruppo, va attribuito a Jimmy Page: è il secondo miglior chitarrista rock di tutti i tempi – o il terzo, a seconda di quanto prendiate sul serio Eric Clapton. Page è stato un generatore di riff memorabili, ha reinventato il suo strumento e ricontestualizzato il blues. Altrettanto inarrivabile è la sua abilità di produttore, per quanto complicata da una curiosa esclusività: Page produce solo i propri lavori.
La passione principale di Page negli ultimi anni è stata quella del curatore: ha scavato sempre più a fondo nel catalogo dei Led Zeppelin, rimasterizzandolo, nella speranza di raggiungere la qualità audio definitiva. È capace di parlare per un tempo lunghissimo del posizionamento dei microfoni. Incute una strana soggezione, malgrado la sua età e la stazza non imponente. Alza di rado la voce, eppure ogni tanto sembra sul punto di mettersi a gridare.
Una volta ha dichiarato: “Non posso parlare a nome degli altri, ma per me le droghe sono state una parte integrante di tutta l’esperienza, sin dall’inizio e fino alla fine”. Ci sono delle canzoni che non sarebbero mai esistite senza i suoi esperimenti con le droghe?
«Non voglio commentare. Non parliamo di questa roba».
Quindi non vuole parlare di nulla che riguardi il rapporto fra i Led Zeppelin e le droghe?
«Non saprei che dire del rapporto fra il pubblico dei Led Zeppelin e le droghe. Ma ovviamente tu non hai pensato di chiedermelo. Non mi hai chiesto quale fosse il clima dell’epoca. Il clima degli Anni 60 era molto diverso da oggi. Adesso c’è una cultura del bere. Ai tempi non era così».
È mai dovuto andare a disintossicarsi?
«No».
Si dice abbia avuto seri problemi con l’eroina. Come ha fatto a smettere?
«Come sai che ho avuto problemi con l’eroina? Tu non sai cos’ho avuto e cosa non ho avuto. Dirò solo questo: alle mie responsabilità verso la musica non sono mai venuto meno. Non ho mollato il gruppo né ho smesso di lavorare. Sono stato presente proprio quanto chiunque altro».
Quindi le dà fastidio il luogo comune secondo il quale la sua presunta dipendenza dall’eroina le ha impedito di produrre In Through the Out Door? Si racconta che nel 1978 John Paul Jones e Robert Plant hanno dovuto terminare il disco al suo posto perché lei era alle prese con la droga.
«Se qualcuno sostiene questo, la prima cosa da chiedergli è: ‟Tu eri lì, all’epoca?”. La seconda cosa da considerare è che io sono il produttore di In Through the Out Door. È quel che ho fatto e c’è scritto, nero su bianco. Se la cosa fosse in discussione, se John Paul Jones o Robert Plant avessero fatto quel che dici, non avrebbero voluto figurare come produttori? È meglio se lasciamo perdere tutta questa storia».
D’accordo, capisco cosa intende. Ma ci sono alcuni aspetti della sua vita che rimangono poco chiari, e...
«Sai che c’è? Quando sarò pronto, scriverò la mia autobiografia».
Non ha dichiarato una volta che avrebbe scritto un’autobiografia solo a patto che fosse pubblicata dopo la sua morte?
«Be’, è così che bisogna fare, no? Tutti sono destinati a morire, perciò bisogna fare in modo di lasciare qualcosa».
Questi scambi un po’ spinosi non sono stati infrequenti durante il nostro incontro, e servono a illustrare due fatti. Il primo è che i Led Zeppelin sono stati l’ultima band colossale a non scorgere alcun rapporto significativo fra le proprie creazioni musicali e il modo in cui erano interpretate dai media: il successo dei loro dischi era slegato dalle loro dichiarazioni pubbliche. Il risultato è che Page considera le interviste prive di qualsiasi scopo. E questa indifferenza ci porta al secondo fatto, cioè che ogni particolare scabroso sui Led Zeppelin proviene da fonti esterne. E ciò rende alquanto complicato risalire alla verità.
Si prenda a esempio il rapporto attuale fra Page e Robert Plant. Quest’ultimo manifesta una sorta di tedio nei confronti del proprio ruolo nella band e pare disinteressato alle reunion, dedito soltanto a produrre musica nuova, che lo allontani sempre più dagli ululati di Immigrant Song. Page è l’esatto contrario: è fissato con la celebrazione dell’eredità Zeppelin e con la riaffermazione costante del loro primato musicale.
Perché secondo lei Robert Plant è tanto deciso a disinteressarsi agli Zeppelin?
«A volte le cose che afferma mi lasciano un po’ perplesso, ma questo è tutto quel che posso dire al riguardo. Non mi metto a leggere tutto quel che dichiara sui Led Zeppelin. Rimango un po’ stupito da alcune sue affermazioni. Ma non rispondo a nome suo».
Lo trova offensivo a livello personale?
«No. Non ha importanza. È inutile abbassarsi a quel livello. Non ho intenzione di inviargli messaggi a mezzo stampa».
Se le chiedessi qual è stato il periodo migliore della sua vita, la risposta sarebbe la stessa che se le chiedessi qual è stato il periodo migliore della sua carriera?
«I momenti più importanti della mia vita riguardano la nascita dei miei figli. Dal punto di vista professionale, invece, sono due: uno è il primo disco d’oro con i Led Zeppelin; l’altro è stato suonare alle Olimpiadi di Pechino in mondovisione. È stato molto bello lavorare con Leona Lewis, che trovo sbalorditiva. E abbiamo suonato Whole Lotta Love per intero, non una versione ridotta».
Il responso del pubblico influenza la sua percezione del suo lavoro?
«Non vorrei sembrare arrogante, ma quando mettevamo insieme i dischi degli Zeppelin e sceglievamo i pezzi, sapevamo tutti che erano ottimi. Eravamo molto sicuri di quello che stavamo proponendo. Prendi When the Levee Breaks. Il testo è chiaro, la storia è chiara. Ma la gente dà ancora oggi interpretazioni diverse a seconda delle emozioni che ne ricava, ed è quello il risultato a cui miri come musicista. La varietà di impressioni».
In generale, preferisce che la gente non sappia troppo della sua vita?
«Non so proprio cosa ci sia da sapere. Non ne ho mai visto la necessità, e non ho intenzione di cominciare adesso».
Ma quando lei era giovane non le interessava, per esempio, la vita di uno come Elvis Presley? Quel che sapeva di lui come persona non influiva sulla fruizione della sua musica?
«Elvis ha cambiato assolutamente tutto per i giovani, e lo ha fatto senza attirare l’attenzione. Ma non mi serve sapere altro sulla sua vita. Credo mi interessi più che altro sapere come furono realizzati quei dischi con Sam Phillips, e la visione che aveva Phillips di questo ragazzo bianco che cantava roba da neri. Ma era la musica ad appassionarmi. Per esempio Chuck Berry: le cose che cantava, le storie che raccontava. Parlava di hamburger che sfrigolano giorno e notte. Noi in Inghilterra non ce li avevamo, gli hamburger. Mi dava l’immagine di un mondo sconosciuto».
Lei è un tipo nostalgico?
«Si, a volte provo nostalgia. Ma non al punto da diventare malinconico».
Le mancano gli Anni 70? La sua vita del 1973?
«La musica era davvero esplosa. I Beatles avevano rivitalizzato ogni cosa, e le case discografiche erano spiazzate. In generale, c’era una libertà positiva nella società. Era un periodo bello per tutti. Non è che stia qui a sospirare, ma lo vedo per com’era. E come chitarrista diventavo più bravo».
Considerando quanto era folle la sua vita nel 1973, mi sorprende che uno dei suoi ricordi principali sia il miglioramento tecnico come chitarrista...
«Quando nel 1952 i miei genitori si trasferirono dalla zona dell’aeroporto di Londra a Epsom, trovarono nella casa una chitarra. Se ne stava lì come una scultura. Nessuno sapeva come ci fosse arrivata. Era in casa e basta. Quindi nacque un collegamento fra la chitarra e quello che ascoltavo alla radio all’epoca. Divenne quasi patologico, tanto ne ero ossessionato. Ma non so come fosse arrivata lì quella chitarra, né che fine abbia fatto. Non ho idea di dove si trovi adesso. Non lo sa neppure mia madre, che è ancora viva. Ma quella chitarra fu come un intervento. Devo considerarla in maniera filosofica, o magari romantica. A ogni modo, per me è una realtà».
Come risponde all’accusa secondo la quale ha fatto il disco insieme all’ex Deep Purple David Coverdale anche per dare fastidio a Robert Plant?
«È una cosa patetica. Non ho intenzione di rispondere».
Ci scambiamo una stretta di mano. Mentre ci alziamo per andarcene, butto lì che l’estetica della stanza richiama quella di 2001: Odissea nello spazio. Page si mette a parlare del suo amore per Stanley Kubrick. Osserva che la colonna sonora di Arancia meccanica è stata prodotta prima dell’avvento del sintetizzatore polifonico: un’impresa straordinaria. Uscendo, non riesco a smettere di pensare a questo: fra tutte le cose che si potrebbero ricordare di Arancia meccanica. Page ha scelto l’arcana tecnologia con cui è stata composta la sua soundtrack. Si tratta di una frase tanto rivelatrice quanto il resto dell’intervista: esiste la musica, poi tutto il resto. Se gli altri non lo capiscono, non sarà lui a spiegarglielo.