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 2015  maggio 29 Venerdì calendario

SCIENTOLOGY – QUELLO CHE I FEDELI NON DICONO


[Alex Gibney]

SAN FRANCISCO. Forse è la volta buona. Forse è finita l’era della Chiesa di Scientology, uno dei culti più controversi nato in America negli anni Cinquanta ed esportato con successo (milioni di fedeli paganti) in mezzo mondo.
Se andrà così, sarà anche merito di un film coraggioso: Going Clear, dell’altrettanto coraggioso documentarista Alex Gibney. Going clear (una specie di Cercando la Purificazione), presentato a gennaio al Sundanee Film Festival e trasmesso in televisione dalla rete Hbo, sarà nelle sale italiane alla fine di giugno. Con drammatiche interviste e clamorosi spezzoni di repertorio, arriva per la prima volta sullo schermo la storia della Chiesa fondata da Ron Hubbard, le sue agghiaccianti cerimonie pubbliche, un mix di Hollywood e Norimberga, le apparizioni dei grandi Apostoli Tom Cruise e John Travolta; ma arriva soprattutto la sofferta denuncia di quattro noti ex membri della Chiesa (uno è il famoso regista e sceneggiatore Paul Haggis), che raccontano di una «prigione della fede», di come loro ci sono entrati e come abbiano, dolorosamente, scoperto, la manomissione delle menti alla quale erano chiamati a partecipare.
Alex Gibney è una sobria voce narrante che accompagna storie e immagini incredibili di questa nuova Chiesa del XX secolo; i suoi successi, gli inganni e il suo favoloso impero finanziario. La prima domanda a Gibney è quindi quella che si fa ai giornalisti che ficcano il naso dove non dovrebbero.Preoccupato?
«Naturalmente, sì. Scientology ha una solida tradizione di intimidazione dei giornalisti. Ora si trovano di fronte a un film che presenta le accuse di quattro suoi ex devoti, difficilmente contestabili. Hanno già comprato una pagina intera sul New York Times e una sul Los Angeles Times, direttamente contro di me. Ogni giorno ricevo la visita di due-tre avvocati che mi consegnano una citazione, hanno mobilitato tutti i loro aderenti su Faeebook, su Google, su Twitter per mettermi alla gogna. Vedo che spendono molti soldi, e che cercano di chiamare alle armi i loro adepti contro il Nemico che li attacca. Fortunatamente, Scientology non è più quella di una volta, un organismo senza voci di dissenso che si vantava di essere una delle Grandi Religioni del pianeta e stimava i suoi fedeli tra gli otto e i venti milioni. Io credo, e nel film lo dico, che oggi una cifra realistica sia appena 50 mila fedeli. Ma credo anche ci sia una ragione molto specifica per cui si preoccupano».
Quale?
«È la questione fiscale. Nel 1993, dopo una clamorosa battaglia legale con il fisco americano – battaglia in cui schierò 24 mila avvocati, che querelarono uno per uno tutti i funzionari che si occupavano del caso – Scientology ottenne lo status di “Chiesa” e di “Religione”; da allora non paga tasse sulle sue proprietà immobiliari, sulle sue lucrosissime attività di servizi. Paga ai suoi dipendenti 6,40 dollari l’ora (la metà del minimo), perché sono “fedeli che offrono lavoro volontario”. Ora gli arriva addosso un film che affronta il problema della legalità delle loro azioni. Io mi auguro che il fisco riveda la sua posizione. Ma se io sono preoccupato, credo che loro lo siano di più».
Se siete membri di questa strana Chiesa, o siete amici o parenti di qualcuno su cui la Chiesa ha imposto le mani, Going Clear di Alex Gibney vi susciterà essenzialmente rabbia. Se invece pensate, come quasi tutti, che Scientology sia solo una delle tante innocue americanate, resterete colpiti da un film che narra quanto sia facile, al giorno d’oggi, turlupinare gente istruita, imprigionare i loro cervelli fino a renderli funzionali alla paranoia sociale e utili idioti di una fede, che qui non chiama in causa il Bene o il Male, ma asseconda solo una spasmodica Voglia di Successo. Un concetto che rende questa Chiesa ancora più tragica e moderna.
Ecco quindi dunque l’incredibile storia, come Alex Gibney la racconta. (Going Clear si basa sull’omonimo libro scritto nel 2013 da Lawrence Wright, giornalista d’inchiesta del settimanale The New Yorker). All’inizio c’è un 34enne americano che presta servizio in Marina durante la seconda guerra mondiale, tale Lafayette Ron Hubbard. Al ritorno, sostiene di essere un eroe di guerra, ma è piuttosto un furbacchione. Fervido di fantasia, però, Hubbard scrive più di mille articoli di Science fiction che invia a decine di pubblicazioni e così sbarca il lunario. Finalmente ottiene il successo nel 1950 con un libro, Dianetics, che affronta i misteri della psiche. Hubbard spiega che la nostra mente è imprigionata da influenze esterne, ma che un percorso guidato da istruttori e da macchine misuratrici di attività elettriche (l’E Meter, di sua invenzione), può guidarci all’elevazione da mente reattiva a mente senziente. Seguendo gli istruttori, e pagando per le loro lezioni, livello dopo livello, l’uomo si libererà di timidezza, sensi di colpa, artrite, miopia, cancro, diabete e impacci in carriera, diventando alla fine clear, libero dai mali e consapevole delle sue potenzialità.
Il libro divenne un best seller e Hubbard trasformò Dianetics in un business, con sedi ufficiali, programmi di terapia, pacchetti per le imprese. Si moltiplicarono gli istruttori che misuravano i pazienti con l’E Meter – la prima visita era gratuita, ma bisognava rispondere a duecento domande intime, senza reticenze – sconsigliavano vivamente altre terapie, somministravano complessi vitaminici e annunciavano, dietro pagamento, il passaggio a un livello superiore, fino al mitico 0T8. E fin qui, la cosa era scientifica.
Ma poi Hubbard, che nel frattempo, inseguito dal fisco, si era trasferito a Marsiglia e si era autonominato Commodoro di una «Flotta mediterranea alla ricerca delle radici della civiltà», ci aggiunse l’aspetto religioso. Spiegò che 75 milioni di anni fa, Xenu, l’imperatore della Confederazione Galattica di 26 pianeti, chiuse nel ghiaccio miliardi di spiriti ribelli e li esiliò sulla Terra. Sono gli uomini di oggi, che diventano i fedeli di una nuova religione, Scientology, che diffondono il Verbo (Dianetics è stato venduto in 17 milioni di copie), elegge i suoi sacerdoti-scienziati (sono diventati 13 mila) e costruisce chiese (2300 nel mondo). Hubbard, miliardario in dollari, morì d’infarto nel 1986 e lasciò la sua chiesa a un giovane manager, David Miscavige, che tutt’ora la dirige. Un bilancio economico della Chiesa non è mai stato reso noto, tuttavia si parla di colossali proprietà immobiliari.
Ma Scientology è soprattutto famosa per il suo radicamento ad Hollywood e per il fatto che alcune grandi star sono suoi testimonial. E Hollywood la tiene in grande considerazione. Ancora due anni fa, un film kolossal, The Master, l’ultima grande interpretazione di Philip Seymour Hoffman, ha dato una versione fiabesca della vita di Hubbard.
«Nel puntare su Hollywood», mi dice Gibney, «Hubbard fu davvero geniale. Aveva capito che la principale religione dell’America è la fama, che il vero sogno americano è diventare una celebrity, avere come adepti degli attori di Hollywood era la migliore pubblicità per la sua chiesa. Aveva anche capito la vulnerabilità degli attori, tipica della loro professione: lui offriva una religione che poteva favorirne la carriera. Hubbard aprì i suoi primi centri di reclutamento proprio nelle scuole di recitazione di Hollywood, fu lì che Scientology ha sempre avuto la massima visibilità». E tra i fedeli arrivarono Sonny Bono, Chick Corea, la figlia di Elvis Presley e la figlia di Stanley Kubrick, Tom Cruise, John Travolta e decine tra sceneggiatori, registi, musicisti, doppiatori, fino ad Elisabeth Moss, ovvero la dolce Peggy Olson di Mad Men.
«Cosa ha fatto Scientology per lei?», venne chiesto a John Travolta. «Tutto» rispose l’attore. «Mi ha salvato la vita, quando ero depresso». E come hanno fatto? «Oh, loro hanno degli strumenti, delle macchine...».
Incredibile, ma vero – e vederli nel film fa un certo effetto – Scientology fa ancora oggi grande uso di assurdi macchinari, simili a quelli dei primi film di fantascienza, misuratori di energia, di sudorazione, di temperatura, manometri, leve, boccagli, caschi, elettrodi, lucine che si accendono. Gibney sorride: «Difficile da credere, ma è vero. In piena era digitale, adoperano ancora un armamentario che viene dagli anni Cinquanta, quando in America per ogni cosa c’era una macchina. Quelle macchine ridicole sono oggi la liturgia della Chiesa, ma non certo la fonte del suo potere. Alla base del trattamento c’è la Confessione. C’è qualcuno che ascolta la tua storia, e tu ti togli il peso dallo stomaco. E, di seduta in seduta, ti affidi completamente a lui. Tutto il meccanismo è fatto per creare dipendenza, rendere la persona ubbidiente, succube. Carpirgli i suoi segreti, le sue debolezze per poterle usare contro di lui. Alla fine loro posseggono la tua anima; le macchine sono solo un’appendice».
Come un’istituzione possa imprigionare un essere umano, è un tema caro ad Alex Gibney. Nella sua vasta produzione di regista, giornalista investigativo, documentarista, ci sono i lavori sulla degenerazione dell’etica degli affari della Enron, travolta da un immane scandalo, un’inchiesta sulla Chiesa cattolica e la protezione dei preti pedofili e soprattutto Taxi to the dark side, del 2007 che gli valse il premio Oscar. Era la storia di un innocente taxista di un villaggio afghano, arrestato con l’accusa di essere un affiliato ad Al Qaeda, torturato e infine ucciso dagli addetti agli interrogatori della Cia e dell’esercito americano. Un film scioccante dove, per la prima volta, i soldati che avevano partecipato a quegli interrogatori parlavano di fronte alla telecamera e spiegavano i meccanismi mentali che li avevano trasformati in omicidi.
E quali erano? Gibney: «In quel caso, l’esercito americano divenne una volontaria prigione delle coscienze. Uomini in divisa si trasformarono in torturatori. Certo, glielo ordinarono. Certo, se non avessero obbedito avrebbero avuto conseguenze. Ma non era solo quello; la verità era che erano stati indottrinati; era stato loro detto che 1’America era nel giusto e tutti gli altri erano nemici; che il fine giustifica i mezzi; e loro si adattarono. Per comodità, alla fine, non per altro. Erano persone banali, come avrebbe detto Hannah Arendt; lì ho capito che il male incomincia in posti banali, ma necessita di una lunga indottrinazione prima di trasformarsi in male assoluto. Devi subire molte ingiustizie, prima che ti abitui a compierne».
«Nel caso di Scientology» continua Gibney «non siamo alle torture fisiche, ma siamo al dominio sulla mente di altri». I quattro testimoni raccontano di gente convinta, o costretta, a spogliarsi degli averi, a divorziare, a interrompere legami famigliari, a spiare, minacciare, intimidire persone che fino al giorno prima erano amiche. Il procedimento è analogo a quello di altre istituzioni chiuse. Ricorda molto il famoso esperimento Milgram, lo scienziato che convocò dei volontari e chiese loro di punire – con scosse elettriche sempre più potenti – persone che non conoscevano. Milgram, che condusse l’esperimento sull’onda dell’emozione provocata dal processo Eichmann a Gerusalemme, concluse che qualsiasi persona poteva essere portata ad obbedire e ad eseguire malvagità. Scientology non funziona tanto diversamente. Tom Cruise, il loro più famoso fedele era sposato con Nicole Kidman, che non apprezzava per nulla la religione del marito. La Chiesa costrinse Cruise a divorziare. E così fece con migliaia di altre persone, identificate come nemici, o per usare il linguaggio della Chiesa suppressive persons dalle quali occorreva disconnettersi.
In Scientology, si apprende dal film, se le persone sono in dubbio, vengono messe in «campi di riabilitazione». Se ti dicono: «Non devi più parlare con tua sorella», lo fai. «Devi firmare un testamento in cui lasci tutti i tuoi beni alla Chiesa», e lo fai. «Questa persona è un nostro nemico, devi aiutarci a non permettergli di nuocere alla Chiesa. Lo farai, vero?».
Lo scopo finale di tutto ciò? La sopravvivenza della Chiesa contro i suoi nemici. E questo meccanismo vale, commenta Gibney, «per le ideologie politiche, per il nazionalismo, per la religione. È la fede a creare la prigione. L’ho visto quando ho intervistato i soldati del carcere di Baghram in Afghanistan, e l’ho visto di nuovo quando i quattro aderenti a Scientology si sono seduti di fronte ad una telecamera ed hanno cominciato a raccontare. Non è facile uscire da una prigione, perché quella è diventata il tuo mondo, dove hai amici, conoscenze, complicità. Vale sia per le vittime che per i carcerieri. Per fortuna, però, le persone che riescono a liberarsene acquistano in empatia con il mondo, comprensione; tutto sommato una qualche forma di felicità».
Signor Gibney, lei fa il giornalista investigativo e i suoi lavori sono una bandiera dei giornalisti in tutto il mondo. Come sceglie i suoi temi?
«Direi: cercare di parlare delle ingiustizie. Capire».
Non pensa che uno abbia il diritto di farsi plagiare da Scientology? Che, in sostanza, siano fatti suoi?
«Certo, ne ha il diritto, la libertà di culto è un fondamento della democrazia. La gente può credere quello che vuole, però non può recare danno ad altri. Per esempio, i loro parenti e i lori amici. E Scientology non dovrebbe avere, dal fisco e dalla legge, lo status di una Chiesa, perché non ne ha i requisiti. Secondo me, lo stesso problema si pone con la Chiesa Cattolica; se dei suoi sacerdoti abusano di bambini e vengono protetti dai loro superiori, questa non è più una chiesa».
Il giornalismo serve? La denuncia serve?
«Oh, sì. Assolutamente. Noi giornalisti abbiamo il compito di fare gli agenti provocatori, gettare delle piccole bombe che esplodano facendo pensare, soprattutto quando le cose non sono ancora di dominio pubblico, quando ci sono solo in giro delle spiacevoli sensazioni. Mi fa piacere che il mio Taxi oggi sia proiettato all’accademia militare di West Point, come monito. Oggi il Senato americano ha stabilito che c’è stato il delitto di tortura nell’era Bush-Cheney; peccato che non sia stato incriminato chi la organizzò».
E per Scientology?
«Mi auguro che chi ha denunciato non sia lasciato solo e che la legge intervenga per proteggere loro e tutti gli altri».
Gli chiedo infine cosa pensa di Charlie Hebdo. «Penso che, purtroppo, una fede – e quindi un’intolleranza – faccia parte di ognuno di noi. E quando tu attacchi l’altrui intolleranza, e ti prendi gioco di quelli che ci credono, in realtà alla fine forse vuoi solo dimostrare la tua. Mi dispiace, ma su Charlie mi vengono solo pensieri tristi».