Francesco Ninfole, MilanoFinanza 29/5/2015, 29 maggio 2015
CREDITI DUBBI, MACIGNO DA 900 MLD
Sulle banche dell’Eurozona pesano crediti deteriorati per 879 miliardi di euro, un valore pari al 9% del pil dell’area. Ma come spesso accade in Europa c’è una forte eterogeneità dei dati a seconda dei Paesi. In termini percentuali le esposizioni dubbie delle banche italiane superano il 20% del totale (si veda grafico in pagina). Valori più alti si osservano soltanto per gli istituti ciprioti, greci, irlandesi, sloveni e portoghesi. Anche i gruppi spagnoli hanno crediti deteriorati inferiori, attorno al 15%, mentre quelli tedeschi e francesi sono attorno al 5%. Dai dati pubblicati ieri dalla Bce sulle non-performing exposures (secondo la definizione armonizzata Eba utilizzata nell’Aqr su dati a fine 2013), emerge per l’Italia un fardello che ostacola la ripresa più che negli altri Paesi (alcuni non hanno vissuto una recessione come quella italiana; altri hanno già varato misure di smobilizzo come bad bank).
La Bce, senza fare riferimento a singoli Paesi, ha rilevato che «un’elevata percentuale di esposizioni deteriorate costituisce un serio problema macroprudenziale e può avere importanti conseguenze macroeconomiche». Innanzitutto, per Francoforte, questa situazione implica che famiglie e imprese sono ancora in difficoltà, con conseguenze per consumi e investimenti, e quindi per la crescita del pil. Inoltre, se la qualità del credito è bassa, le banche devono impiegare liquidità e capitale a fronte delle esposizioni deteriorate, con minori spazi per nuovi prestiti. Perciò, in un capitolo dedicato alla materia all’interno del Rapporto sulla stabilità finanziaria, la Bce ha indicato una serie di possibili interventi per liberare le banche dalla zavorra delle sofferenze (tra cui la creazione di bad bank), pur ricordando lo scoglio dei vincoli delle regole Ue sugli aiuti di Stato.
L’elevato livello di crediti deteriorati è uno dei fattori che incide di più sulla percezione della salute delle banche italiane da parte degli investitori. Sempre nel rapporto di ieri la Bce ha indicato che il costo del capitale, ovvero il rendimento che il mercato chiede ai gruppi del Paese, è attorno all’11%, circa il 3% in più rispetto agli istituti spagnoli e francesi. A inizio 2014 i valori erano vicini al 9% in tutti e tre i Paesi. Il problema maggiore è che il rendimento del capitale è molto più basso di quanto richiesto dagli investitori: nel 2014 il Roe degli istituti italiani, al netto delle svalutazioni degli avviamenti, è rimasto negativo (-0,2%), seppur con un lieve miglioramento rispetto all’anno precedente (-0,9%). I rendimenti negativi sono dovuti soprattutto alle rettifiche di valore su crediti, che hanno assorbito quasi interamente il risultato di gestione. L’ampio divario tra costo (11%) e rendimento (-0,2%) del capitale implica che per le banche italiane è più difficile raccogliere risorse sui mercati: ci sono troppi rischi nella percezione degli investitori, a fronte di rendimenti vicini allo zero. La bassa attrattività di capitali si traduce anche in una limitata capacità di fare credito. I dati Abi rilevano segnali di miglioramento, che riflettono anche la ripresa economica (quest’ultimo resta un fattore decisivo, assieme alla crescita della domanda delle aziende): nel quadrimestre gennaio-aprile i nuovi finanziamenti alle imprese hanno registrato un incremento dell’11,2% rispetto al 2014. Tuttavia i prestiti complessivi alle imprese secondo Bankitalia sono scesi del 2,2% anche a marzo (-3% a febbraio). Perciò il governo continua a negoziare con Bruxelles misure per ridurre le sofferenze e rilanciare il credito.
Francesco Ninfole, MilanoFinanza 29/5/2015