Luca Ricolfi, Panorama 28/5/2015, 28 maggio 2015
IL PASTICCIACCIO BRUTTO DI UNA SCUOLA SCADENTE
L’idea di valutare la scuola è ottima. Le ragioni per cui sindacati, insegnanti e studenti si oppongono alla valutazione sono quasi sempre pessime. E tuttavia penso sia ragionevole opporsi alla valutazione.
Provo a spiegare brevemente perché. Quando si mette in piedi un sistema di valutazione, è molto importante chiarire fin dall’inizio chi e che cosa si intende valutare. Un sistema può essere validissimo per valutare una scuola, ma disastroso per valutare i singoli studenti. Oppure può essere valido per valutare gli studenti, ma non per valutare i loro insegnanti.
Una delle ragioni per cui i test Invalsi hanno fin da subito suscitato una sorda opposizione da parte degli insegnanti è che questo aspetto non è mai stato chiarito in modo inequivocabile. E molti insegnanti hanno ritenuto che i test somministrati allo studente fossero l’anticamera di un meccanismo di valutazione dei singoli insegnanti, o del corpo docente di una singola scuola.
Di qui la prassi, particolarmente diffusa nelle regioni meridionali, di aiutare gli studenti durante la compilazione dei test, o di permettere agli studenti di copiare fra loro. In queste condizioni i test non servono a nulla, anzi sono dannosi perché forniscono informazioni distorte sulla qualità delle scuole, penalizzando le regioni in cui gli insegnanti sono più corretti. Ma che cos’è che non funziona nel sistema di valutazione basato su test come quelli dell’Invalsi? I punti deboli fondamentali sono almeno tre.
Primo. I test sono somministrati dagli insegnanti stessi, anziché da valutatori esterni. Questo elemento è già sufficiente, in un Paese poco serio come il nostro, a creare iniquità fra studenti e fra scuole. Il problema è che un sistema di valutazione serio, con ispettori e valutatori esterni, costa molto, e i nostri politici preferiscono cavarsela come stanno facendo all’Università ossia mettendo in piedi un farraginoso sistema di autovalutazione delle scuole, che accentuerà la burocratizzazione del lavoro di insegnante (riunioni, riunioni, e ancora riunioni) sottraendo tempo prezioso all’attività di insegnamento.
Secondo. Anche se fossero somministrati da valutatori esterni, i test restano strumenti molto imprecisi (e superficiali) a livello individuale, mentre potrebbero essere un ottimo strumento di valutazione del livello di una scuola. Se ben costruiti e somministrati da personale neutrale, i relativi risultati dovrebbero assolutamente essere resi pubblici, possibilmente non solo per singola scuola ma anche per singola materia. I genitori hanno diritto di sapere qual è il livello delle scuole cui iscrivono i propri figli.
Terzo. Somministrare i test ai singoli ragazzi è utile, se no non sapremo mai qual è il livello di una scuola. Ma usare i risultati di un ragazzo in sede di esame è un errore gravissimo, denunciato in tutto il mondo da chi ha a cuore la vera cultura: se i test contano, ovvero fanno media, gli insegnanti sono indotti ad «allenare» i ragazzi a rispondere alle domandine e agli esercizi dei test, anziché a trasmettere loro una conoscenza profonda della disciplina che insegnano. Si chiama «teaching to the test» (insegnare per il test, ossia in funzione del superamento del test) e sta facendo danni ovunque per accedere a un certo livello o a una certa istituzione sia decisivo superare una prova-quiz.
Resterebbe il problema degli insegnanti. Che non vogliono essere valutati, perché si sentono più tranquilli con un sistema piatto ed egualitario, che non permette a nessuno di emergere, ma evita a tutti di restare indietro rispetto ai propri colleghi.
Ebbene, il fatto che le ragioni con cui gli insegnanti osteggiano la valutazione siano spesso pessime (e inconfessate) ragioni, non deve renderci ciechi di fronte alla difficoltà di mettere in piedi un sistema di valutazione ragionevole. Matteo Renzi aveva provato a buttare lì l’idea di dare più potere ai presidi, ma è stato trattato come il dittatore della Corea del Nord e quindi (essendo sotto elezioni) ha pensato bene di fare retromarcia. Meglio un collegio di valutatori, e un mastodontico apparato di autovalutazione delle scuole, che tutto annebbi e stemperi.
Invece secondo me l’idea di dare più potere ai presidi non era malaccio, anche se le mancava un pezzo fondamentale. Non era malaccio perché in una scuola il preside sa benissimo quali sono gli insegnanti eccellenti, ma soprattutto sa perfettamente quali sono gli insegnanti che danno problemi, gravi problemi.
Che un preside possa non dico licenziare, ma almeno non rinnovare il «contratto» a un insegnante che sta a casa tutti i lunedì, o a un insegnante di inglese che non sa l’inglese, o a un insegnante di matematica che non sa spiegare la sua materia (e sappiamo tutti quanti di questi casi infestano purtroppo la carriera scolastica dei nostri figli) a me pare sacrosanto. C’è un pezzo mancante, tuttavia. Se si vuole dare al preside (o a qualsiasi organismo collegiale) il potere di decidere quali insegnanti tenere e quali no, quali insegnanti ingaggiare e quali no, quali insegnanti premiare e quali no, occorre anche un sistema di incentivi che renda conveniente, per il preside, fare le scelte giuste. È illusorio pensare di educare (magari con dei corsi ministeriali!) i presidi a diventare dei bravi manager scolastici. Occorre che le scelte cattive abbiano un costo per il dirigente che le fa, e quelle buone producano vantaggi e gratificazioni. Ora, di sistemi di questo tipo io ne vedo due soltanto.
Il primo è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, una strada che nessun politico italiano imboccherà mai. L’altro è la valutazione delle scuole mediante i risultati dei loro allievi a test somministrati da valutatori esterni, accoppiata a un meccanismo che dia più risorse alle scuole migliori e premi le scuole che migliorano il proprio livello. Gli allievi potrebbero rispondere ai test senza l’incubo di giocarsi la promozione su una prova arida come un test Invalsi, i presidi avrebbero tutto l’interesse a selezionare gli insegnanti che contribuiscono a migliorare, o a tenere alto, il livello della scuola in cui lavorano.