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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

BLUES BROTHERS

È mattina presto, il re di Hollywood viene svegliato da una telefonata. Arriva da New York, come tutte le altre. Il motivo è semplice: New York è tre ore avanti rispetto a Los Angeles, e quindi è lì che si fanno i conti. E i conti, ovvero la registrazione quotidiana di ogni dollaro speso e di ogni incasso al box office, sono la cosa più importante. Almeno secondo Lew Wasserman, il temibile e onnipotente capo della Universal Pictures. Siamo nell’ottobre del 1979 e il problema è The Blues Brothers, un progetto che ormai sfugge a ogni logica. Che cos’è? Per qualcuno è un musical, per altri una commedia, o un film da maschi. Ma c’è anche chi pensa che sia un’assurdità. Una sola cosa è certa: la produzione è in ritardo, il film sta bruciando rapidamente un budget fin dall’inizio troppo alto.
«Maledizione!», urla Wasserman al suo secondo, Ned Tanen, presidente della Universal, che subito se la prende con quello che sta sotto di lui, ovvero Sean Daniel, vice presidente e responsabile delle produzioni: «Qua mi fanno fuori!». Gli ordina di fare qualsiasi cosa per fermare l’emorragia di dollari. Daniel alza il telefono e chiama il regista, John Landis, che a sua volta si rivolge a uno dei due protagonisti, Dan Aykroyd. Lui è uno con cui si riesce a ragionare. Soprattutto è l’unico modo per arrivare all’altro, John Belushi.
Tutto gira intorno a Belushi, il più elettrico e famoso attore comico del suo tempo. Non è corretto addossare a lui la colpa di tutti i problemi del film, dalla sceneggiatura scritta e completata all’ultimo alle complicate scene d’azione. Ma sarebbe ancora più scorretto dire che non è responsabile. Belushi è un disastro, e lo è diventato soprattutto per colpa della sua incontrollabile (e alla fine letale) dipendenza dalla cocaina. Quando la coca vince su Belushi il film si ferma, e quando un film si ferma, i soldi volano via dalla finestra, e quando i soldi vengono bruciati in questo modo Lew Wasserman si arrabbia.
Tutto è cominciato in un bar, come succede di solito in queste storie. Siamo nel novembre del 1973. Il bar in questione si chiama 505 Club, è a Toronto, in Canada, ed è di proprietà di Dan Aykroyd, un tipo bizzarro sui vent’anni, con i piedi piatti e gli occhi diversi l’uno dall’altro (uno è verde, l’altro marrone), un passato dietro le sbarre da piccolo delinquente e un’infanzia passata in seminario.
Il club apre all’una di notte, perché a Dan piace lavorare di notte. Da tre anni si esibisce con il gruppo di comici Second City, che sono di Chicago ma si stanno facendo conoscere anche a Toronto. Quella sera vede entrare dalla porta sul retro un bullo di 24 anni con una sciarpa bianca al collo, giacca di pelle e una coppola di quelle indossate di solito dai tassisti un po’ in là con gli anni. È John Belushi. Conduce uno show radiofonico, The National Lampoon Radio Hour, ed è a Toronto in cerca di nuovi talenti. Ma Dan Aykroyd gli dice: «No, grazie». Ha firmato un contratto con Second City, si trova bene in Canada, dove è nato e cresciuto (precisamente a Ottawa). E poi ha il suo club, con un jukebox pieno dei suoi dischi preferiti: R&B, soul, ma soprattutto un sacco di blues, da quello più popolare tipo B.B. King alle cose più di culto come Pinetop Perkins. Belushi smette di parlare e ascolta. I suoi gusti musicali sono decisamente diversi, a lui piace l’hard rock Anni 70 e anche cose più pesanti tipo AC/DC e Deep Purple.
L’amore platonico tra Belushi e Aykroyd va oltre ogni logica. Belushi è uno che sputa fuori un’idea dietro l’altra scarabocchiandole su pezzi di carta sparsi in giro, Aykroyd invece scrive delle specie di trattati degni di uno scienziato pazzo. In genere, quando qualcuno chiede a Belushi cosa vogliano dire la sua risposta è: «Non ne ho idea».
Tutti e due, però, sono giovani geni della comicità nati e cresciuti nella regione dei Grandi Laghi, famosa per la sua scarsità di sole e la sua abbondanza di salsicce polacche. Belushi è un adolescente intrappolato nel corpo di un adulto, un monumento al caos volontario, un tipo espansivo e caloroso che non è in grado di nascondere le sue emozioni neanche volendo, e fra l’altro non vuole mai. Il suo peggior nemico sono le formalità. Appena lo conosci, lui ti chiama subito “Amico”. Aykroyd, invece, è preciso e disciplinato ed esibisce geniale freddezza canadese. Appena lo conosci, lui ti chiama: “Signore”. Vive per il blues, ha una passione e una conoscenza della materia che sta tra l’enciclopedico e il maniacale. La sua folgorazione per il blues colpisce in pieno Belushi, che notoriamente è uno che non conosce le mezze misure. All’improvviso esiste solo il blues, sempre.
John Belushi ha sempre voluto fare musica, fin dai tempi del liceo quando era il batterista di una band chiamata The Ravens.
Una sera al bar Dan Aykroyd tira fuori un’idea: «La storia di due avanzi di galera basata sull’amore per la città di Chicago e per la sua musica». Uno dei suoi amici, Howard Shore, si inserisce nella conversazione: «Potreste chiamarvi The Blues Brothers». L’idea di Dan prende forma nei primi giorni del Saturday Night Live, quando lui e Belushi diventano Elwood e Jake “Joliet” Blues, fratelli di sangue con vestito nero, cravatta sottile, Ray-Ban scuri. Dan Aykroyd è Elwood, il taciturno e preciso bluesman con l’armonica in bocca, Belushi è Jake, lo sbruffone appena uscito dalla prigione di Joliet. Dan Aykroyd ha una fede cieca nelle capacità vocali di Belushi, la cui voce è ok ma non è niente di speciale.
Dopo un po’ di concerti in giro, Lorne Michaels concede ai Blues Brothers uno spazio nel SNL, per intrattenere il pubblico prima dello show. La diretta è difficile da conquistare, Michaels non è convinto. Alla fine raggiungono un compromesso: i Blues Brothers esordiscono dal vivo a New York il 17 gennaio 1976. Vestiti da api. Passano altri due anni e finalmente in una puntata condotta da Steve Martin, Jake e Elwood salgono sul palco e cantano Hey Bartender.
Tre mesi dopo esce il primo film di Belushi, Animal House. John è Bluto, l’insaziabile teppista del liceo che porta la sua confraternita Delta House alla gloria. È il ruolo che lo trasforma in una star.
Steve Martin li invita ad aprire le sue nove serate all’Universal Amphitheater di Los Angeles. Ma c’è un problema: la band non ha una band. Dan Aykroyd e John Belushi si rivolgono a Paul Shaffer, il leader della band del SNL, che butta giù una lista di possibili candidati. Nel giro di pochi giorni si ritrovano tutti a New York: i chitarristi Steve Cropper e Matt “Guitar” Murphy, il bassista Donald “Duck” Dunn, il batterista Steve Jordan e una sezione fiati composta da Alan Rubin, Lou Marini, Tommy Malone e Tom Scott. Paul Shaffer suona le tastiere. Provano per due settimane, poi volano a Los Angeles. Firmano con la Atlantic Records, che gli propone di registrare un disco completamente dal vivo.
La scaletta dello show viene messa a punto da Belushi e Aykroyd a New York nel corso di lunghi brainstorming notturni a casa di Belushi a Morton Street oppure nel loro club privato, il Blues Bar all’angolo tra Hudson e Dominick Street. L’album si intitola Briefcase Full of Blues e vince due dischi di platino. Il 24 gennaio del 1979, nel giorno del suo trentesimo compleanno, John Belushi mette a segno una tripletta senza precedenti: ha un album, un film e uno show televisivo al numero uno in classifica.
A Hollywood i tempi sono cambiati, finalmente. Sono gli attori e non più gli studi a condurre il gioco. E non è mai stato così evidente come in questo caso: «Trasformiamo i Blues Brothers in un film», dice Belushi. «Sono d’accordo», risponde Aykroyd. Chiamano il manager di John, Bernie Brillstein, una vecchia volpe di Hollywood che sembra una versione ebrea di Babbo Natale: «Ok», risponde lui. Belushi riceve un cachet di 500mila dollari, Aykroyd di 250mila: in cambio la Universal ottiene un potenziale blockbuster e un marchio da usare per altri film. «Non c’è stata una vera e propria trattativa», ricorda Tannen: «L’accordo era molto semplice: non fate cazzate, questa è una questione d’amore».
Rimangono alcuni dettagli da risolvere. Wasserman vuole spendere al massimo 12 milioni di dollari, i creativi invece pensano ce ne vogliano almeno 20. La Universal vuole che sia finito entro l’agosto del 1979, in soli sei mesi. Praticamente impossibile. Nella mente dei suoi creatori, The Blues Brothers è una produzione grossa con un set complesso, effetti speciali e un cast con centinaia di persone. E poi c’è la voglia infinita di divertimento e avventure di John Belushi che si alimenta di droghe come il quaaludes, la mescalina, l’LSD e varie anfetamine. Tutte insieme, però, non sono niente in confronto alla cocaina. Non ne ha mai abbastanza, dice che migliora le sue esibizioni, lo aiuta a essere John Belushi.
E lui è: «Il boss dei Blues Brothers» come lo chiama Dan Aykroyd. Quando c’è un problema, si rivolgono tutti a lui, e lui mette sempre le cose a posto. E un po’ il padre e un po’ il figlio di tutti. «Era molto leale», racconta Steve Cropper: «Un ragazzino troppo cresciuto, il migliore amico di tutti. E non smetteva mai di fare festa, aveva paura che se fosse andato a dormire non si sarebbe più svegliato».
A marzo Bob Weiss, il produttore del film, torna a casa e trova un pacco minacciosamente grosso, avvolto in un foglio dell’elenco del telefono. È la sceneggiatura di Dan Aykroyd, intitolata The Return of the Blues Brothers e firmata “Scriptatron GL-9000”. Weiss chiama subito Sean Daniel: «Buone notizie, finalmente abbiamo la prima stesura». Ma non sono le solite 120 pagine. «È lunga 324», dice Weiss: «Abbiamo molto lavoro da fare». Anche perché è scritta come un esercizio di free style letterario, senza un filo logico. E l’inizio delle riprese è programmato tra soli due mesi.
John Landis, il regista, si chiude in casa e inizia a tagliare, pesantemente. Ne emerge dopo tre settimane con uno script “girabile”. Le riprese cominciano nel luglio del 1979 e le cose procedono abbastanza tranquille. Belushi e Aykroyd occupano gli ultimi due piani della Astor Tower di Chicago. Dan passa il tempo a fare gite nei sobborghi della città. Belushi, figlio prediletto della città, fa praticamente tutto quello che gli passa per la testa. È talmente amato da tutti che Aykroyd lo chiama: «Il sindaco non ufficiale di Chicago». Per un mese tutto fila liscio. Landis riesce a far lavorare Belushi al meglio. Chiede anche ad Aykroyd di abbassare il registro della sua recitazione e di trasformare Elwood in un personaggio totalmente impassibile. Tutti e tre lasciano il segno. Landis tira fuori la battuta più celebre del film: «Siamo in missione per conto di Dio».Il budget del film ora è a 17,5 milioni, piuttosto alto per una commedia. O qualunque cosa sia The Blues Brothers. Nessuno lo sa veramente. Ci sono molti momenti comici, ci sono inseguimenti di macchine ed elicotteri che si scontrano, ma tutto gira intorno a quattro straordinari momenti musicali, ognuno interpretato da un gigante della musica: Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown e Cab Calloway. Senza contare le esibizioni di Jake ed Elwood Blues.
«C’era un po’ di confusione», ricorda John Landis: «Ho guardato la mia crew e ho detto: “Ma questo è un musical”. Erano disorientati, non capivano più cosa stavano facendo».
Ad agosto, però, tutti sanno almeno una cosa: il film sta affondando. La ragione principale è John Belushi. È sempre in giro, a qualsiasi ora. A volte lo ritrovano in un bar, a volte non lo trovano proprio. La cocaina, invece, riesce sempre a trovarlo. Ci sono solo due persone al mondo che riescono a gestirlo. La prima è sua moglie. Con Judy, specialmente quando sono in vacanza nella loro casa a Martha’s Vineyard, John ritorna al suo stato naturale di pigra indolenza. L’altro è Dan, che lo protegge sempre e non lo giudica mai.
Una notte, alle tre, mentre stanno girando una scena in un posto isolato ad Harvey, Illinois, John sparisce. A volte lo fa. Dan vede in fondo a una via una casa con la luce accesa. «Stiamo girando un film», dice al padrone di casa: «Cerchiamo uno degli attori». «Ah, vuoi dire Belushi? E arrivato qui un’ora fa. Mi ha svuotato il frigo e ora sta dormendo sul divano», risponde il padrone di casa. Solo Belushi poteva fare una cosa del genere. «L’ospite preferito d’America», lo chiama Aykroyd. «Dobbiamo tornare al lavoro», gli dice svegliandolo. Belushi annuisce e si alza. Tornano insieme sul set come se non fosse successo niente.
Le riprese terminano a Los Angeles. La produzione rispetta più o meno i tempi e la California è una botta di energia: feste alla Playboy Mansion, serate con Robert De Niro e Jack Nicholson. Belushi riesce a rimanere sobrio. Incontra Smokey Wendell, un ex agente dei Servizi Segreti che è diventato la guardia del corpo di Joe Walsh, il chitarrista degli Eagles, e lui lo aiuta a stare lontano dalla droga. «Se non faccio qualcosa ora, tra un paio d’anni sarò morto», gli dice Belushi.
Il momento in cui si comporta meglio è in presenza di Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown e Cab Calloway. Anche loro sono in ottima forma. Persino Ray, il più fuori di testa del gruppo, ride in continuazione raccontando sempre le stesse barzellette sporche. Il film è un’opportunità importante per tutti. Tranne Ray, sono grandi stelle della musica ormai in declino.
Qualche settimana prima dell’uscita nelle sale (fissata per il 20 giugno del 1980), John Landis fa vedere The Blues Brothers ai proprietari dei più grandi cinema americani. La maggior parte dice: «È un film per neri, i bianchi non se lo fileranno mai».
E poi è lungo due ore e mezza, senza contare l’intervallo. Wasserman fa un cenno con le dita a Landis: taglia. Lui elimina 20 minuti, ma intanto scoppia un’altra bomba. «Lew mi chiama nel suo ufficio e mi dice: “Conosci Ted Mann?”». È il proprietario di alcuni dei cinema più importanti del paese, tra cui il Bruin e il National nel quartiere residenziale per bianchi di Westwood, Los Angeles. «Signor Landis», dice Mann: «Non abbiamo intenzione di programmare The Blues Brothers. Abbiamo un cinema a Compton e lo faremo vedere lì, ma non a Westwood: non vogliamo neri. I bianchi non andranno mai a vederlo per gli ospiti musicali. Non solo sono neri, ma sono pure passati di moda».
I film con un budget alto di solito escono in almeno 1.400 sale, questo solo in 600. Accompagnato anche da pessime recensioni. A New York Belushi gira tutti i cinema per osservare chi lo va a vedere. Aykroyd si infila di nascosto in una sala a Times Square. E sente la gente ridere. The Blues Brothers guadagna 115 milioni di dollari, diventa il successo più duraturo della Universal. E la sua più grande beffa.