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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

PAURA O FOBIA?

Un incubo. Lo scorso novembre, in pieno Halloween, alcuni clown spuntati dal nulla giravano per le strade aggredendo verbalmente – e qualche volta anche fisicamente – i passanti increduli. Tutto è accaduto in diverse città francesi (e non solo), teatro di scene inquietanti che hanno traumatizzato gli abitanti. Senza dubbio i malintenzionati hanno usato Halloween per soddisfare le loro pulsioni sadiche o, in alcuni casi, per vendicarsi: un adolescente sarebbe stato vessato da una banda di clown che probabilmente avrebbe riconosciuto senza le maschere.
Ma questa piccola psicosi clownesca ha risvegliato interrogativi in molte altre persone: è capitato che i bambini dicessero ai genitori di non voler uscire a causa dei clown. In seguito, lasciandosi andare a parlare, alcuni adulti hanno confessato di avere paura dei clown fin dai tempi dell’infanzia.
Nel 2008 uno studio realizzato dalla BBC e dalla rivista «Nursing standard» su 250 bambini di età compresa tra i 4 e i 16 anni, ha rivelato che la maggior parte di loro aveva una percezione negativa dei clown e che alcuni ne avevano francamente paura. Ma basta questo per parlare di fobia dei clown?
La moda del momento
Nel DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la paura dei clown è definita «coulrofobia», e figura tra le «fobie specifiche», paure irrazionali provate di fronte a determinati oggetti o situazioni molto particolari. Ma è lecito chiedersi se le reazioni dei bambini spaventati dai clown possano davvero considerarsi fobie. A dire il vero, oggi si tende a usare il termine «fobia» a sproposito. È tipico dei nostri tempi dare nomi sofisticati ai disagi fisici e psicologici. Così, è più dignitoso definirsi vittime di «misofobia» (paura della sporcizia) che ammettere, banalmente, di essere ossessionati dalla pulizia.
Talvolta psichiatrizzare comportamenti che sconvolgono è un modo per allontanare le responsabilità. Il recente esempio di Thomas Thévenoud, un deputato francese che ha giustificato le sue inadempienze fiscali con una «fobia amministrativa», l’ha ampiamente dimostrato. La misofobia esiste, senza ombra di dubbio, ed è stata documentata da riviste serie che si occupano di psichiatria, ma per quanto riguarda la coulrofobia è tutto molto meno evidente. Questa paura è menzionata in qualche articolo di psichiatria infantile, e non è così strano: evidentemente esistono bambini terrorizzati dai clown e altri che sono spaventati da Babbo Natale. Ma dovremmo allora parlare anche di «paternatalofobia» (parola inventata per indicare la paura di Babbo Natale)? In fondo non vi è nulla di assurdo o di patologico nel fatto che un bambino abbia paura di uno sconosciuto mascherato, che si tratti di un clown o di Babbo Natale. È, al contrario, una reazione molto sana. Che non ha nulla di problematico se la paura non è abnorme o non sopravvive nell’età adulta. Che cos’è una fobia?
Esistono fobie di tutti i tipi. Alcune sono rare e poco documentate, come l’«ornitofobia» (paura degli uccelli), l’«erpetofobia» (autentica fobia dei rettili, diversa dalla paura piuttosto diffusa dei serpenti), l’«elmintofobia» (paura dei vermi) o la «micofobia» (paura dei funghi). Ma esistono. Ho incontrato personalmente pazienti che presentavano alcune di queste fobie insolite. Altre sono più comuni, e molto ben documentate nella letteratura scientifica. In particolare l’«agorafobia» (paura dei grandi spazi aperti, delle folle o dei luoghi pubblici), la «claustrofobia» (paura degli spazi limitati, come gli ascensori) o l’«ereutofobia» (la paura di arrossire).
Tuttavia nei media e su Internet circolano fobie puramente inventate, o scherzi. È il caso della fasulla «hipopotomonstrosesquipedaliofobia» (paura delle parole troppo lunghe) o della «fumettofobia» (paura dei fumetti). Le più buffe sono forse l’«anatidaefobia», descritta come la paura di essere osservati da una papera, o la «nanopabulofobia», la paura dei nani da giardino con la carriola.
Tutto è possibile
In teoria è possibile sviluppare fobie per qualunque cosa. Chiunque associ un oggetto a un’emozione traumatizzante può diventare fobico nei confronti di quell’oggetto. Un individuo che sia stato aggredito e colpito con un nano da giardino, in seguito può – in teoria – sviluppare una paura irrazionale nei confronti di quel tipo di scultura in gesso.
Ciò deriva dal fatto che il nostro cervello associa l’emozione – in questo caso la paura causata da un evento traumatizzante – al contesto nel quale l’evento si è prodotto. Determinati circuiti di neuroni fanno convergere i due tipi di informazione verso un centro denominato amigdala. Da quel momento la paura può essere associata a ogni tipo di oggetto o di contesto. Ho conosciuto pazienti con paure fobiche molto particolari, che non erano citate nei testi di psicologia. Questo non significa che simili patologie non esistano: non è escluso che alcune persone soffrano di un’autentica «fobia amministrativa» o di una vera e propria «fobia dei clown».
Ma che cos’è una fobia autentica? Ecco il caso reale di una donna di 24 anni che ha la fobia della metropolitana. Si tratta di una forma di claustrofobia, ma relativa soltanto alla metropolitana. Non ha paura degli ascensori né di altri spazi ristretti. Eppure è incapace di scendere a una fermata della metropolitana. Bisogna sottolineare che, nel suo caso, la paura non è la conseguenza di un trauma legato alla metropolitana, non è mai stata aggredita nella metropolitana e ignora del tutto il motivo per cui quel luogo le faccia tanta paura.
Infatti, mentre alcuni pazienti ricordano il fattore scatenante della loro fobia, questa giovane donna sa soltanto che già da bambina faceva scenate ai genitori per non prendere la metropolitana. Per evitare le crisi di angoscia della figlia, i genitori avevano imparato a evitare i tragitti in metropolitana. Ma questa strategia di evitamento, invece di eliminarla, non ha fatto altro che amplificare la paura della bambina, che ha anche sviluppato una fobia per le fermate della metropolitana, poi per le vie in cui si trovavano le stazioni, al punto di non riuscire più a uscire di casa.
La fobia non diventa sempre esagerata, talvolta rimane confinata all’oggetto iniziale. Alcune persone hanno paura per tutta la vita degli aerei e non vi salgono mai, ma sono in grado di frequentare gli aeroporti per andare a prendere un amico. E altri si dicono «aracnofobici» perché non potrebbero mai immaginare di prendere un ragno in mano, ma non sono sopraffatti dal panico vedendo un piccolo ragno in giardino. Bisogna dunque distinguere il disgusto, l’apprensione, la ripugnanza, il timore o il fastidio dalla fobia vera e propria.
In termini molto semplici si può definire la fobia come la paura smisurata di un oggetto, di una persona o di una situazione. Questa paura è sentita in modo violento, sia a livello emotivo sia a livello fisico, si traduce nell’evitamento sistematico dell’oggetto o della situazione fobica, e causa una sofferenza o, in alcuni casi, addirittura isolamento sociale.
Uso e abuso del suffisso «fobia»
Possiamo affermare che l’uso di questa terminologia senza cognizione di causa comporta alcuni rischi. L’impiego del suffisso «fobia» è sempre più diffuso per definire alcuni comportamenti sociali che ci colpiscono. Un esempio molto noto è la «xenofobia». Secondo una definizione psicologica, lo xenofobo sarebbe un individuo che soffre di una paura eccessiva e irrazionale degli stranieri o delle persone diverse. Così i bambini inuit che urlano di paura vedendo per la prima volta un africano potrebbero essere giustamente considerati xenofobi. Ma nel linguaggio comune il termine xenofobo è divenuto un semplice sinonimo di «razzista». Definisce il rifiuto, l’ostilità, l’avversione nei confronti di chi «non è come noi».
A questo punto bisogna distinguere chiaramente la reazione di paura che costituisce il nucleo della fobia e un’ostilità di natura differente. Gli studi compiuti nel campo delle neuroscienze hanno mostrato che a questi due processi sono sottese due aree nettamente separate del nostro cervello. Così le reazioni di paura e di aggressione sono entrambe scatenate in una parte del cervello chiamata amigdala. Tuttavia le reazioni di paura corrispondono a una zona centrale dell’amigdala, mentre le reazioni di ostilità si fondano su un’area detta «basolaterale», che è adiacente.
Questa distinzione è osservabile in laboratorio: quando si mostrano a una serie di ratti alcune scene di aggressione, questi divengono a loro volta più aggressivi e si nota che i neuroni della loro amigdala basolaterale rinforzano le connessioni nel corso di questo processo di apprendimento aggressivo.
Le reazioni di paura, invece, sono determinate dall’amigdala centrale. Così la distruzione di questa area nelle scimmie fa scomparire la loro paura dei serpenti.
Il problema è che in termini come «xenofobia» il linguaggio comune non fa molta poca differenza tra la paura e l’ostilità. Forse perché spesso l’aggressione è conseguente a una reazione di paura. È una reazione tipicamente umana: l’eliminazione degli squali per opera dell’uomo è in parte condizionata dalla paura irrazionale di questi animali. Allo stesso modo, l’aver paura di un gruppo sociale può innescarne l’esclusione e la persecuzione. Nel Medioevo la paura delle streghe e degli eretici portò a massacri e oppressioni.
E ancora oggi la paura di chi è diverso o straniero è molto presente. Gli abitanti delle coste della Manica avevano paura dei vichinghi e gli amerindi temevano spesso la grande portata dell’immigrazione europea sui loro territori: erano «xenofobi» nel senso proprio del termine.
Alcuni eventi sociali confermano ciò che impariamo dall’anatomia del cervello sull’odio e la paura come entità dissociate: i giapponesi non hanno paura dei coreani o dei cinesi, eppure alcuni di loro li hanno a lungo considerati – talvolta è così ancora oggi, purtroppo – inferiori, e dunque disprezzabili. Allo stesso modo, non è certo che i tedeschi degli anni trenta fossero spaventati o terrorizzati dagli ebrei che vivevano in mezzo a loro, e che in genere erano integrati. Provavano forse sentimenti di gelosia – o più precisamente di invidia – per quanto riguarda la loro presunta intelligenza o ricchezza? O rancore riguardo misteriosi poteri occulti attribuiti loro? Il razzismo può essere innescato da sentimenti molto vari, lontani dalla paura e dunque da ogni forma di fobia.
Quando la paura nasconde l’odio
Un altro uso scorretto del termine fobia si ha nel termine «omofobia», usato spesso dai giornali, che etimologicamente significa «paura del proprio simile». In realtà la paura dell’omosessualità è piuttosto rara, e in generale si tratta della paura di essere noi stessi omosessuali. Si può osservare, di rado, e mi è capitato di riscontrarla personalmente in alcuni miei pazienti. Il timore di perdere il proprio statuto di uomo dominante e virile per divenire l’omosessuale disprezzato e insultato è reale. Bisognerebbe dunque distinguere chiaramente l’ostilità antiomosessuale, che potremmo chiamare «omodiscriminazione», da qualcosa di psicologico, definibile con l’espressione «omosessuofobia», ossia la paura dell’omosessualità.Allo stesso modo il termine «islamofobia», ormai onnipresente nel dibattito pubblico, non descrive propriamente una paura dell’Islam. Quest’ultima esiste, e non è recente: è possibile che oggi numerosi cristiani della Siria e dell’Iraq e molti copti egiziani siano profondamente islamofobi nel senso psichiatrico del termine, ossia che provino una paura viscerale nei confronti dell’Islam. Per alcuni di loro questa paura può certamente trasformarsi in odio. Ma il termine «islamofobia» usato oggi rappresenta piuttosto il versante ostile del sentimento, vicino all’intolleranza o al razzismo. Dal momento che l’Islam è la religione più praticata dagli immigrati di origine araba, l’islamofobia sarebbe infatti una forma mascherata di razzismo antiarabo. Con il pretesto di combattere una religione, si attaccherebbe un gruppo etnico. Non si tratterebbe dunque di una vera e propria fobia, ma dell’espressione di pregiudizi, ostilità e discriminazioni verso i musulmani.Senza dubbio chi ha diffuso l’espressione «islamofobia» perseguiva il fine lodevole di combattere i pregiudizi, l’odio razziale e l’esclusione. Tuttavia avrebbe dovuto fare attenzione a non mischiare un suffisso psichiatrico (fobia) con una religione (l’Islam).
Voltaire, Proudhon e Victor Hugo, che hanno combattuto l’oscurantismo della religione cattolica, erano forse «cattolicofobici»? Karl Marx, che rifiutava l’oppio dei popoli, era «religiofobo»? Se non si amano le caste dell’induismo, si è «induismofobici»? Se non si prende sul serio il Dalai Lama, si è «buddhismofobici»? In definitiva, il termine «islamofobia» è un esempio perfetto dello scorretto uso politico di espressioni psichiatriche. In qualità di psicologo, mi sembra preferibile riservare il suffisso «fobia» a un problema mentale specifico come quelli definiti in precedenza. Gli altri usi si prestano alle incomprensioni e ai conflitti. Usare in modo scorretto le espressioni psichiatriche, anche con le migliori intenzioni, non va a vantaggio della tolleranza, né dell’intelligenza, che è il suo fondamento.