Andrea Galli, Corriere della Sera 24/5/2015, 24 maggio 2015
Il padre di Touil «Forse si è fidato di chi non doveva» «Era stanco della povertà, l’hanno fregato In Italia per fare soldi, poi sarebbe tornato»– Abdel Majid Touil non rincorreva nemmeno il pallone, unico passatempo nel paese di Sidi Jaber, settecento abitazioni nell’entroterra marocchino, a due ore di strada da Marrakech
Il padre di Touil «Forse si è fidato di chi non doveva» «Era stanco della povertà, l’hanno fregato In Italia per fare soldi, poi sarebbe tornato»– Abdel Majid Touil non rincorreva nemmeno il pallone, unico passatempo nel paese di Sidi Jaber, settecento abitazioni nell’entroterra marocchino, a due ore di strada da Marrakech. Un po’ per indolenza e un po’ perché, abbandonato al quarto anno un istituto tecnico, il ragazzo preferiva starsene nei campi, da solo e sotto il sole, a raccogliere basilico, timo e menta da piazzare al mercato: gli inviti degli amici, che organizzavano le partite di calcio sul perimetro di terra dura, venivano puntualmente rifiutati. Dunque figurarsi, dice il papà Abdallah, 51 anni, muratore, vederlo nel pieno di un’azione terroristica dentro il Bardo e guidare a folle velocità una macchina per portare al sicuro il commando dopo la strage al museo, come le autorità tunisine sono convinte sia successo. Però nulla impedisce di pensare che «mio figlio, partito con pochi soldi per raggiungere l’Italia, si è fidato delle persone sbagliate. Magari ha venduto il passaporto a chi non doveva, senza immaginare le conseguenze o sottovalutandole. Qualcuno potrebbe aver preso la sua identità per partecipare all’attentato con un falso nome. È stata una trappola». Il colloquio con il signor Abdallah, che è nato povero e non avendo studiato parla l’arabo e non il francese, è avvenuto ieri mattina in cinque momenti diversi, alla presenza di un interprete. La linea si interrompeva spesso e quella fissa era bloccata. Il suo vecchio cellulare serve a inoltrare e ricevere chiamate, impossibile navigare online e mandare fotografie. Internet, a Sidi Jader, è privilegio di pochi. Uno di questi, un ragazzo di un liceo di Bni Milel, a cinque chilometri di distanza, gli ha scattato l’immagine che vedete in pagina e l’ha inviata per email. Abdallah è stato accompagnato dal ragazzo da Hanen, 22 anni e due bimbi, una delle sue figlie (l’altra è a Gaggiano) e ben felice di vivere nel paese. Al contrario di Abdel Majid. «Si era stancato di non avere denaro. Da noi, d’estate — dice il padre — tornano gli emigranti per le vacanze. Li riconosci subito, arrivano con grosse macchine. Soffriva questa situazione e voleva provare a cambiarla». Erano stati Abdallah e Hanen a portarlo all’aeroporto di Casablanca, città che il papà non aveva visto («Sono uscito da Sidi Jader una volta appena, per una gita a Marrakech»). Salito su un aereo di una compagnia low cost, Abdel Majid aveva raggiunto Tunisi. Sceso, aveva chiamato a casa, una cinquantina di metri quadrati, per confermare che tutto procedeva bene. Qui s’era fermato una notte. Già a corto di dinari tunisini, aveva preso un misero albergo («Non mi ha riferito quale»). Eravamo a gennaio. L’attentato al museo è del 18 marzo. Dalla Tunisia, Abdel Majid aveva raggiunto la Libia e il padre ignora se attraverso gli ingressi regolari o i tanti varchi clandestini. In Libia era rimasto dieci giorni. Prima di salire sul barcone per la Sicilia, il ragazzo aveva fatto la seconda telefonata a casa. La terza sarebbe arrivata dall’appartamento di via Pitagora 14 a Gaggiano. Giovedì, con le prime notizie dell’arresto sui quotidiani, Abdallah aveva ricevuto la visita del capovillaggio. «Mi ha chiesto se erano vere le accuse. Gli ho risposto di no, che erano bugie. Ha promesso che ci aiuterà per quanto è nelle sue possibilità». Giriamo al signor Abdallah il cognome di due uomini, Laabidi e Khachnaoui: secondo gli investigatori, si sarebbero incontrati con suo figlio in place Pasteur e insieme si sarebbero diretti al Bardo. «Impossibile». Infatti in quelle ore Abdel Majid era in Italia. «Cos’altro vuole sapere? Sì, a Sidi Jaber frequentava la moschea per pregare, ma alla pari degli altri. Quanto a Tunisi — dice il papà — la ignorava. Mio figlio non aveva mai viaggiato in aereo, non si è mai mosso. Se ha scelto di andarsene, lo ripeto, è stato per i soldi. Il sogno era guadagnare, tornare in Marocco, trovare una fidanzata, sposarsi e aprire un negozio. Abdel Majid è andato a scuola ed è giusto che non si accontenti di una vita come la mia».