Angelo Allegri, il Giornale 25/5/2015, 25 maggio 2015
Bordelli, l’Italia vuole cambiare la Legge Merlin. Nelle prossime settimane inizia il dibattito in Senato per legalizzare la professione
Bordelli, l’Italia vuole cambiare la Legge Merlin. Nelle prossime settimane inizia il dibattito in Senato per legalizzare la professione. Intanto diamo uno sguardo alla Germania dove aprire una casa chiusa sembra più facile che vendere chip e alla severa Svezia dove le prostitute si sono trasformate in escort– Potrebbe essere la volta buona. La proposta di legge sulla regolamentazione della prostituzione che il Senato inizierà ad esaminare nelle prossime settimane ha le carte in regola per arrivare al traguardo. A cominciare da un ampio sostegno bipartisan: la prima firmataria è Maria Spilabotte del Pd e il testo è condiviso da parlamentari di Forza Italia, Cinque Stelle e Scelta Civica. Così, dopo quasi 60 anni, la legge Merlin, che abolì le case chiuse (in Italia erano 560) e istituì il reato di favoreggiamento della prostituzione, potrebbe essere avviata alla pensione. Il testo in discussione segna, rispetto alla situazione attuale, una svolta rivoluzionaria. I punti di maggiore novità sono almeno tre. In primo luogo le lavoratrici del sesso potranno affittare locali alla luce del sole (senza conseguenze giudiziarie per il proprietario dei locali, come accade oggi). Sia pure in versione riveduta e corretta e sotto forma cooperativa, sarebbe la riapertura delle case chiuse. I sindaci avranno poi la facoltà di istituire delle «zone rosse» dove concentrare l’esercizio della professione. Infine, le aspiranti prostitute dovranno chiedere un’autorizzazione alla Camera di Commercio con l’obbligo di presentare ogni sei mesi un certificato di idoneità psicologica. È probabilmente questo uno dei punti di maggior delicatezza della proposta. Proprio l’obbligo di registrare l’esercizio di una professione «stigmatizzante» si è rivelato in altri Paesi il maggior ostacolo alla regolamentazione del settore. E proprio le esperienze straniere dimostrano la difficoltà di ogni intervento legislativo. Il primo esempio (vedi anche articoli in pagina) è quello tedesco, ispirato al criterio della liberalizzazione, con l’obiettivo di far emergere alla legalità il fenomeno e di chiudere così la porta ad abusi e sfruttamento. All’estremo opposto il modello svedese che prevede la repressione penale della prostituzione, con la condanna, anche al carcere, del cliente e il sostegno dei servizi sociali alla donna che si prostituisce. Nessuno dei due sembra però perfetto. Secondo gli esperti la legge tedesca ha sì portato all’emersione del fenomeno ma si è dimostrata poco efficace nel combattere lo sfruttamento. Il modello svedese invece, al di là delle perplessità che potremmo definire «libertarie» su una decisione, quella di vendere il proprio corpo, che può essere frutto di una libera scelta, appare difficilmente esportabile. Anche se di recente ha ispirato le scelte legislative di Paesi come Norvegia e Islanda e suscitato interesse in Gran Bretagna e Francia. L’anno scorso perfino il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per chiedere ai singoli Paesi di ispirare le proprie scelte legislative alla Svezia, con la punizione del cliente e la tutela della donna. ***** GERMANIA A Stoccarda ricordano ancora quel giorno, in un fine settimana del 2009. Per l’apertura del Pussy-Club, un grande bordello in periferia, i proprietari decisero di fare le cose in grande. Con migliaia di volantini e annunci reclamizzarono l’offerta per le giornate inaugurali: 70 euro per il pomeriggio, 100 per la serata («Quello che vuoi, con tutte le donne che vuoi»). La campagna pubblicitaria si rivelò un successo superiore alle attese. A poche ore dall’apertura dovette intervenire la polizia: in coda di fronte al palazzone c’erano quasi 2mila persone, molte arrivate con pullman parcheggiati alla bell’e meglio nel quartiere. Nulla di strano: tra le tante industrie tedesche in buona salute c’è anche quella del sesso. Negli ultimi anni la Germania ha superato di gran lunga l’Olanda ed è diventata, come scrivono preoccupati i giornali tedeschi, «il più grande bordello d’Europa». L’affermazione non pare azzardata: le case a luci rosse sono tra le 3.000 e 3.500 (solo a Berlino sono quasi 500); le prostitute hanno superato di slancio quota 300mila; a Colonia prospera il più grande casino del mondo, il Pascha, 12 piani, centinaia di lavoratrici del sesso che si danno il cambio 24 ore su 24. Il boom è legato alla legge del 2002 che ha legalizzato la prostituzione e ridotto al minimo gli adempimenti burocratici per l’apertura delle case chiuse. La riforma aveva un obiettivo dichiarato: far uscire le prostitute dal limbo dell’illegalità. Molto alla tedesca, fu minuziosamente stabilito che le lucciole avrebbero dovuto iscriversi a un apposito fondo della previdenza sociale, che avrebbero pagato i contributi e le tasse. A 14 anni di distanza il fallimento è nei fatti. Dal punto di vista burocratico le sex worker registrate come tali sono poche centinaia, mentre sono aumentate notevolmente massaggiatrici ed estetiste: a nessuno piace essere incasellato in una professione «stigmatizzante» che si spera di esercitare per poco tempo. Soprattutto, dal punto di vista sostanziale, il Paese è stato travolto da un’ondata di giovani professioniste del sesso in arrivo dall’Est Europa. Il risultato è che il potere contrattuale delle prostitute nei confronti dei tenutari dei bordelli si è ridotto e che sono aumentate in maniera esponenziale inchieste e condanne per sfruttamento e tratta di esseri umani. Soprattutto da Ucraina e Romania le giovani donne vengono attirate con l’inganno in Germania e poi avviate verso il «mestiere». Nel 2014 la polizia ha censito circa 500 casi di questo tipo, ma alcune associazioni per la difesa delle donne parlano di 10mila persone coinvolte nel traffico. Per questo il ministro socialdemocratico della Giustizia Heiko Maas ha deciso di correre ai ripari. Senza rinnegare la legge del 2002 (voluta dalla coalizione allora al governo tra Spd e Verdi e contrastata dalla Cdu di Angela Merkel) si propone di introdurre una nuova figura di reato, con pene da uno a tre anni di carcere, per i clienti che si accompagnano a prostitute in situazione di «grave sfruttamento». La proposta ha però provocato una sollevazione tra criminologi ed esperti del settore. L’obiezione più gettonata è l’impraticabilità della nuova norma: per provare il reato bisogna dimostrare la consapevolezza da parte del cliente della situazione di «costrizione» della ragazza, cosa che non appare facile. In molti però mettono in discussione anche la sua utilità. Chi in Germania vuole aprire un negozietto per vendere patatine fritte, ha scritto qualche tempo fa il settimanale Der Spiegel, deve sottoporsi a una serie di adempimenti burocratici che specificano anche il tipo di asciugamani e portasaponette da mettere in bagno. «Chi vuole avviare un bordello deve semplicemente comunicare alle autorità la data di apertura». *****SVEZIA Il più giovane non era ancora maggiorenne, il più anziano un arzillo novantenne. Tutti, poco meno di 600 solo nel 2013, ultimo anno per cui si hanno delle statistiche, sono finiti in una cella della polizia svedese. Il reato: aver pagato per fare sesso con una prostituta. Chi tra gli arrestati non ha ammesso la propria colpevolezza è stato messo sotto processo (la pena può arrivare a un anno di carcere), per gli altri è scattata la procedura alternativa: sequestro del cellulare, schedatura con prelievo del Dna, da inserire nella banca dati dei reati sessuali, segnalazione ai servizi sociali per l’avvio di un programma di assistenza psicologica. In Svezia comprare sesso è un reato penale dal 1999. La proibizione non ha nulla a che vedere con la moralità pubblica; il Paese, tra l’altro, negli anni ’60 fu il primo al mondo a legalizzare l’industria pornografica. Il punto di partenza è che nel rapporto tra cliente e prostituta, il primo commette per definizione una violenza, anche se, all’apparenza, l’offerta del proprio corpo avviene liberamente. Per questo a essere perseguito è solo l’uomo, mentre per la «lavoratrice del sesso» sono previsti piani di sostegno e di assistenza. Nei 16 anni dalla sua approvazione la legge che proibisce il sesso a pagamento, Kvinnofrid, secondo la dizione utilizzata in Svezia, non ha mai perso l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione: in base agli ultimi sondaggi, tra il 70 e l’80% degli abitanti è favorevole al suo mantenimento. E tra i giovani fino a 34 anni le percentuali di sostenitori sono ancora più alte. Secondo i bilanci ufficiali redatti dalle autorità pubbliche gli obiettivi della norma sono stati raggiunti. In base a uno studio del ministero della Giustizia pubblicato nel 2010 le prostitute attive in Svezia, circa 3mila nel 1995, si sono via via ridotte a 600. Per fare un paragone, in un Paese vicino alla Svezia come la Danimarca (5,5 milioni di abitanti contro i 9,3 della Svezia) le prostitute attive sarebbero poco meno di 6mila. Un rapporto di 10 a uno. Estremamente ridotti sarebbero anche i casi di sfruttamento e di immigrazione clandestina legata al commercio del sesso. Eppure a indicare le crepe del modello svedese sono proprio quelli che se ne occupano più da vicino: sociologi e studiosi di criminologia. Senza arrivare a chiedere la legalizzazione della prostituzione, quasi tutti gli studi indipendenti sul tema (se ne sono occupati tra l’altro una ricercatrice dell’Università di Malmoe, Charlotta Holmstroem, e un docente di Cambridge, Jay Levy) concludono che non ci sono prove che la legge abbia davvero raggiunto i brillanti risultati che i suoi sostenitori rivendicano. Il primo motivo è il boom, successivo all’introduzione della norma, dei servizi di escort online. La prostituzione tradizionale, per strada o nei locali, ha lasciato il posto a quella via Internet, molto più difficile da censire e localizzare. In più l’introduzione di sanzioni penali ha provocato l’immersione dell’intero fenomeno e, paradossalmente, portato nell’ambito dell’illegalità anche la prostituta: se vuole continuare il suo lavoro deve rendersi in qualche modo «complice» del suo cliente. Un altro aspetto negativo, denunciato da alcune associazioni, è l’effetto stigmatizzazione che colpisce le lavoratrici del sesso: in molti casi, se scoperte, vengono private della custodia dei figli perché «incapaci» di gestire la propria vita. «Il modello svedese ha delle specificità molto forti», spiega Gabriella Scaramuzzino, ricercatrice svedese (il cognome italiano è del marito) dell’università di Lund. «È fatto di una cultura che preesisteva all’introduzione della legge, di una presenza molto forte dei servizi sociali. Per questo mi sembra difficile esportare questo tipo di norme in altri Paesi».