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 2015  maggio 23 Sabato calendario

SACRIFICI E LAVORO, ALTRO CHE DESTINO

Non è un predestinato. Non è uno di quelli baciati dalla fortuna, favoriti dalla luna, privilegiati dalla natura. Non è nato campione, se aveva talento lo ha allenato, se aveva arte l’ha espressa. Da emigrante.
visiONE Fabio Aru, sardo di San Gavino Monreale ma da sempre a Villacidro, il paese di Giuseppe Dessì. «Da ragazzo solo qui mi sentivo a casa mia – tramandava lo scrittore -, solo qui mi pareva che la vita avesse un senso, e anche ora tutte le volte che ci ritorno, mi sembra di capire veramente tutto». Così anche per lui. Nato in un giorno da Tour de France (quel 3 luglio 1990, a Mont-St-Michel, Museeuw superò Bontempi e Ludwig: un’altra era ciclistica), Fabio sembrava interessato ai passaggi e ai contrasti del calcio, e ai diritti e ai rovesci del tennis. La bici gli serviva solo per spostarsi più velocemente da casa al campo dove l’erba veniva ruminata dai tacchetti, e da casa ai campi in terra rossa. Finché quella Easy Time, roba da supermercato, gli apparve sotto un’altra luce, quella di un cavallo alato, o di una piccola principessa, o forse soltanto di un modo per esplorare il mondo e scoprire se stesso. Il giorno in cui, in macchina con i suoi genitori che lo accompagnavano a una gara, si fermò per veder passare il Giro d’Italia, Fabio vide passare anche il suo futuro, o lo sognò, o lo immaginò. E forse fantasticò se stesso, in maglia rosa, baciato da due miss e dalla vita.
FAMIGLIA Una terra vera, una famiglia sana, il liceo classico. Queste le basi. La scelta di fare, dello sport, la propria vita, senza certezze, se non quella dell’impegno. Fabio su strada, su pista, sui prati e sui sentieri. Si segnalò nel ciclocross e nella mountain bike, dove c’è meno concorrenza, dove c’è più semplicità e spontaneità. Poi sul continente, a Palazzago, nel Bergamasco, alla scuola di Olivano Locatelli, un duro, di metodi discussi e discutibili, ma che conosce il ciclismo e riconosce i corridori. Fabio soffriva di nostalgia, c’erano giorni in cui piangeva e notti in cui, se solo avesse potuto, avrebbe rifatto la valigia e sarebbe tornato a Villacidro, l’aria che sa di mirto e, i giorni di festa, anche di porceddu. Ma l’orgoglio è diventato fede, la lontananza si è trasformata in disciplina, i dubbi si sono elevati a traguardi. Nell’ambiente si cominciava a parlare di questo ragazzo, bravo, tenace, scalatore, uno che sa guidare la bici, uno che sa stringere i denti.
ESPERIENZE Il 2012, che è il suo primo mezzo anno fra i professionisti, gli ha insegnato «a guardare, scoprire, esplorare». Il 2013 «a considerare i sacrifici e affrontarli». Il 2014 «ad avere i gradi di capitano e le conseguenti responsabilità». In particolare, se chiude gli occhi, Aru rivede «il Giro d’Italia 2014, la tappa di Montecampione, gli ultimi metri, in solitudine, a tutta, poi la linea del traguardo, le braccia al cielo. Una felicità pazzesca», poi «la Vuelta di Spagna, la prima delle due tappe vinte, quella del Santuario de San Miguel de Aralar. Quando sono scappato e non mi hanno ripreso. Una soddisfazione immensa», infine «il Mondiale di Ponferrada. Correre con la maglia azzurra è onore, privilegio, responsabilità. Un’emozione unica».
DISCIPLINA L’inverno di Aru, che potrebbe essere il titolo di un romanzo di Dessì, è stato rispetto e disciplina. Il suo riferimento, non a caso, è Paolo Tiralongo, un altro isolano (Sicilia) emigrato a Palazzago, stessa faccia solcata dal vento. Il suo modello, non a caso, è Vincenzo Nibali, un altro isolano (Sicilia) emigrato però in Toscana (Mastromarco), stessi occhi saraceni, stessa fame agonistica. Come Tiralongo e Nibali, Aru non molla mai. A chi (Gregory Henderson) ha fatto allusioni a doping, Aru ha recapitato una querela per diffamazione. «La bici è la mia vita, fatta di gioie e dolori. Tanti momenti belli, anche qualche momento difficile. Ma la bici t’insegna a superarlo».