Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 23 Sabato calendario

LA BCE PUBBLICA I VERBALI DELLE SUE DECISIONI, LA CONSULTA NO. RISULTATO: DRAGHI È AUTOREVOLE, MENTRE A ROMA C’È VILLA ARZILLA

È di ieri la pubblicazione del verbale della riunione del vertice della Bce del 15 aprile scorso. Dentro non c’è nulla di clamoroso: il Qe (quantitative easing) funziona, non c’è motivo di temere una scarsità di bond da acquistare, e non c’è alcune fretta di alzare i tassi d’interesse. Eppure, per noi italiani, la notizia c’è, basta vederla: mentre la Bce pubblica i verbali delle sue riunioni, a Roma la discussione interna alla Corte costituzionale che ha preceduto la sentenza sulle pensioni, a parte il numero dei voti pro e contro (sei contro sei, con il doppio voto decisivo del presidente), è tuttora avvolta dal segreto, terreno di caccia dei giornalisti gossipari. Non sembra dunque un caso se Mario Draghi è oggi il personaggio più credibile e autorevole in Europa nelle materie di sua competenza (in politica nessuno batte Angela Merkel), mentre la Consulta viene sempre più spesso paragonata a Villa Arzilla, come ha scritto nel suo ultimo libro-diario Sabino Cassese, che fino a poco tempo fa sedeva tra i giudici dell’alta corte.
Il fatto è che l’opacità, la segretezza, il rifiuto di rendere pubblica la dissenting opinion sono sempre più inconciliabili non solo con le regole della democrazia, ma soprattutto con le esigenze della società e dell’economia nell’epoca di internet, dove affari e informazione viaggiano in tempo reale, con una richiesta di trasparenza sempre crescente. Mario Draghi ne ha preso atto, ed è stato per una sua decisione che, a partire dall’agosto 2013, i verbali del Consiglio direttivo della Bce vengono pubblicati dopo ogni riunione. Un’innovazione fino ad allora contrastata dalla maggioranza degli stessi banchieri centrali che erano al vertice della Bce, convinti che il clima di segretezza fosse il più congeniale all’importanza delle decisioni da assumere su materie delicate come la moneta, le finanze pubbliche e le banche (questioni di certo non meno importanti delle pensioni). Draghi si è opposto a questa visione, valida per un’azienda privata ma non in un soggetto pubblico, ed ha potuto sconfiggerla indicando come modello la Federal Reserve degli Stati Uniti, che pubblica regolarmente i verbali delle sue decisioni: una tradizione che fa onore a quel Paese, dove anche i dibattiti interni alla Suprema corte sono pubblici.
Rispetto alla modernità di Draghi e alla trasparenza della Bce, oltre alla Consulta italiana, ci sono altri ritardatari in Europa. La prima è la Commissione Ue, guidata da Jean-Claude Juncker. Proprio in questi giorni, al suo interno, si sta discutendo una nuova direttiva, nota come «Better regulation», con cui si promette maggiore trasparenza, porte e finestre aperte, ma fino a un certo punto. Infatti, come ha precisato il primo vicepresidente, Frans Timmermans, nessuno si aspetti che vengano resi di dominio pubblico i risultati delle votazioni all’interno del collegio dei commissari europei. In fondo, la segretezza sembra un vizio duro a morire a Bruxelles: da due anni le trattative sul Ttip si svolgono a porte chiuse, e ora rischiano di esserlo anche quelle tra le multinazionali del tabacco e l’esecutivo Ue sul problema del contrabbando. Per questo il Parlamento Ue, scottato dall’esperienza Ttip, ha chiesto la massima trasparenza sul negoziato che riguarda il tabacco, dove sono in gioco dieci miliardi di euro sottratti all’economia legale.
Tornando all’Italia, non deve essere facile convincere giudici costituzionali ultraottantenni, come Giuseppe Frigo e Paolo Grossi, a fare propri i criteri e la trasparenza dell’epoca del web. Alla Consulta, come ha spiegato al Corriere del sera il presidente Alessandro Criscuolo, 77 anni, i ritmi di lavoro sono di questo tipo: «Ci riuniamo una settimana sì, e una no. Una settimana si tengono udienza pubblica e camera di consiglio, nell’altra settimana si scrivono le motivazioni e si preparano le cause: 20-25 ogni volta. I giudici possono anche lavorare a casa». Il tutto per uno stipendio di 360 mila euro lordi, che fanno 12.618 netti al mese, contro i 200 mila dollari dei colleghi della Corte suprema Usa. Troppo pagati i giudici costituzionali? Per nulla, sostiene Criscuolo: «I parlamentari guadagnano molto di più, e sono quasi mille, mentre i giudici costituzionali sono 15».
Ecco, sulla loro busta paga i giudici di Villa Arzilla non perdono un colpo. Ma sugli effetti della loro sentenza sulle pensioni, circa 18 miliardi di maggiori spese per lo Stato, sono andati a naso. Lo ha confermato lo stesso Criscuolo: «Non erano dati di cui disponevamo. E poi noi non facciamo valutazioni di carattere economico». Una difesa che ha il sapore dell’autogol. Domenico Cacopardo ha spiegato su ItaliaOggi che la Consulta aveva l’obbligo di tenere conto anche dell’articolo 81 della Costituzione, che impone allo Stato di «assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Concetto ribadito ieri da Pier Carlo Padoan nell’intervista a Repubblica: «La Consulta doveva valutare i costi della sua sentenza. Ma questo è mancato». Un errore grave, che l’obbligo di pubblicare i verbali interni, se introdotto, potrebbe limitare in futuro, forse addirittura scongiurare.
Tino Oldani, ItaliaOggi 23/5/2015