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 2015  maggio 23 Sabato calendario

Jackson Browne ha 66 anni e il volto da bravo ragazzo californiano che ha spezzato innumerevoli cuori non è invecchiato poi molto

Jackson Browne ha 66 anni e il volto da bravo ragazzo californiano che ha spezzato innumerevoli cuori non è invecchiato poi molto. Neppure la sua musica, se nell’album Standing in the Breach, uscito a ottobre, ha potuto inserire una canzone scritta a 18 anni (The Birds of St. Marks, pensata per Nico a fine Anni Sessanta, mai incisa in studio) senza che si notasse alcuna differenza. Dal 1996 a oggi, Browne ha pubblicato un album ogni sei anni, e Standing in the Breach vale - a parere abbastanza unanime - quanto le sue cose migliori, con l’eccezione naturalmente dei primi album degli Anni Settanta, quelli che l’hanno fatto entrare nella leggenda. «Non so come sia avvenuto - spiega lui - ma i sei anni sono diventati una regola. Non ho una fabbrica, sono un artigiano e ho i tempi dell’artigiano, e poi mi piace - come è avvenuto in questo album - mettere insieme materiale diverso, scritto in momenti diversi della mia vita, se il mix funziona». Sapremo presto se il mix funziona anche dal vivo: domani da Roma parte il suo tour europeo, che fa tappa in Italia anche a Bologna lunedì, mercoledì a Como e giovedì 28 a Torino, al Teatro Colosseo. «Farò tutte le canzoni che gente vuole sentire, ma gradualmente inserirò i pezzi nuovi. A pensarci, ecco forse perché ci metto tanto tempo a fare un disco: negli album voglio avere solo canzoni che poi non mi imbarazzino quando le canto in pubblico. Non è sempre stato così, negli Anni Ottanta». La verità è che Jackson Browne, che fu talento precocissimo (These Days, uno dei suoi brani più noti, risale ai tempi del liceo), ha gestito la sua arte con lentezza e singolare attenzione ai dettagli: «Non mi piace paragonarmi agli altri - dice - ma sì, il massimo per me è scegliere con cura ogni singolo musicista per ogni singola registrazione, preoccuparmi che ciascuno di loro sia felice quando suona per me. Non sono mai stato in una band, se non da ragazzino, ma sono cresciuto nella Los Angeles degli Anni Settanta quando i musicisti si sentivano una comunità. Almeno, io pensavo fosse così, ma forse ero l’unico. Ricordo una volta, in studio da Stevie Nicks, quando lei stava per partire per un tour. “Che bello - le dissi - che suoni con i miei musicisti” “Tuoi? - rispose lei - io pensavo di averteli solo prestati”». Con Running On Empty («Non so dove sto correndo ora, ma continuo a correre»), nel 1977 diede l’addio al sogno beat della fuga «on the road» e anticipò gli Ottanta di Ronald Reagan, che lui visse all’opposizione. E ora? «Ora sono preoccupato e anche un po’ pessimista per il futuro del Pianeta, cerco buone notizie nel mondo e ne trovo poche. Mi interesso di politica perché la politica dovrebbe interessarsi più di ecologia, ma la democrazia, almeno in America, è vittima della prepotenza del denaro. I due partiti hanno programmi identici e il sistema non permette ad altri di presentarsi e allargare così i temi dei dibattito. Siamo ancora un Paese razzista, e il Presidente Obama ha trovato un’opposizione pregiudiziale senza precedenti. Due cose resteranno di lui: l’assistenza sanitaria allargata a molti americani che prima non l’avevano e l’apertura a Cuba, un passo dal quale nessuno potrà più tornare indietro. È una rivoluzione che avrà conseguenze su tutta l’America Latina, che - come tutti sanno - è da sempre nel mio cuore. Per questo, il bilancio non è così negativo».