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 2015  maggio 23 Sabato calendario

Petrus Tetar van Elven è un artista che nessuno ha mai sentito nominare. Il suo nome non dice nulla, se non a quei rari specialisti che lo ricordano come pittore di casa Savoia

Petrus Tetar van Elven è un artista che nessuno ha mai sentito nominare. Il suo nome non dice nulla, se non a quei rari specialisti che lo ricordano come pittore di casa Savoia. Eppure la sua Veduta fantastica (1858), che con i suoi tre metri e mezzo di larghezza ci accoglie all’ingresso della mostra «Il Bel Paese. L’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra», curata da Claudio Spadoni al Mar di Ravenna, aiuta a capire qual era l’idea dell’Italia che allora si coltivava, e per cui si poteva anche morire. Era una via di mezzo tra realtà e fantasia, tra storia e mito. Tre anni prima dell’Unità il poco noto olandese dipinge infatti una città inverosimilmente affacciata sul mare e circondata dalle Alpi, in cui nello stesso spazio si addossano il Duomo di Milano e la basilica di San Marco, la cupola del Brunelleschi e il cupolone di San Pietro. I monumenti sono disegnati con precisione, ma il quadro, che allude appunto all’unificazione del Bel Paese – espressione di Dante, ripresa da Stoppani nell’omonimo romanzo del 1876 - è un luogo irreale, più simile alle scenografie di Gardaland che al depliant di un’agenzia turistica. Anche la mostra di Ravenna, che comprende circa centotrenta opere, si muove sul doppio registro di realtà e fantasia perché, attraverso l’arte, da un lato documenta i luoghi e la vita di quel cruciale mezzo secolo, dall’altro lascia spazio ai sogni. Otto sono le sezioni tematiche in cui è divisa: dal Risorgimento ai paesaggi, dalla vita quotidiana in città e in campagna al ritratto, fino alla nascita del futurismo. Dopo un breve incipit sull’epopea risorgimentale (ma senza retorica, si intende: nella Caserma a Modena di Buonamici, per esempio, i soldati dormono per terra sulla paglia, evidentemente in un accampamento di fortuna), ecco una serie di paesaggi italiani, sospesi appunto tra verità e dimensione fantastica. Già, perché il verismo dei vari Fragiacomo o Ciardi, fedeli al loro mondo di pescatori, barche e vele, non ha nulla a che fare con l’apparizione dello Scoglio di Quarto di Nomellini, 1910, una sorta di pittura gestuale ante litteram. All’Ottocento oggettivo e scientifico subentra il Novecento soggettivo e lirico? No, le cose non sono così semplici, perché già il Castel Sant’Angelo di Ippolito Caffi, eseguito verso la metà del diciannovesimo secolo (l’artista morirà nel 1866 inabissandosi con la nave ammiraglia «Re d’Italia»nella battaglia di Lissa, a cui aveva voluto partecipare per dipingerla dal vero), è una visione allucinata. Realtà e irrealtà, insomma, sono un po’ come la ragione e il torto di cui parlava Manzoni: non si possono dividere con un taglio netto. Subito dopo i paesaggi si passa alla sezione sulla «società che cambia», una delle più suggestive della mostra. Notiamo qui La lezione di piano (Cecioni), allora rito obbligato delle signorine di buona famiglia. Ma non è il caso di fare dell’ironia se, come afferma un noto direttore d’orchestra di oggi, «suonare con due dita Fra Martino campanaro fa capire la musica più che ascoltare mille concerti». E poi quella Lezione doveva essere più riposante rispetto alla nostra abitudine di portare i figli a danza, a ginnastica, in piscina. Se non altro, si svolgeva comodamente in casa. Ma continuiamo a seguire il percorso espositivo. Le villeggianti di Camillo Innocenti, 1912, giungono in campagna con i loro abitini da città in pizzo bianco, quanto mai adatti a sedersi sull’erba e sulla terra smossa. Per fortuna portano con loro le sedie del salotto, e così si accomodano sul prato come se fosse un tinello. Nell’Appuntamento nel bosco di Portici di De Nittis, invece, una signora appoggiata all’ombrellino sembra sprofondata nella lettura, ma a pochi passi da lei, nascosto fra gli alberi, l’aspetta l’innamorato o l’amante che finge di essere lì per caso… La mostra continua poi con una sezione sul ritratto (Hayez, Piccio, Lega, Medardo Rosso, Boldini, Baccarini e altri) a cui segue una sulla fotografia. Qui troviamo una serie di immagini del 1914 che sembrano sì di quell’anno, ma avanti Cristo: lavandaie inginocchiate sulle rive del lago di Como per lavare la biancheria, come Nausicaa nell’Odissea (molto meno leggiadre, d’accordo, ma non è questo il punto); oppure carretti trainati dai buoi che portano tronchi di legno, come in un mondo medioevale, arcaico. Tocca a Luca Comerio ricordarci le tensioni sociali e le violenze dell’oggi, con le sue drammatiche sequenze sulle barricate di Milano del 1898. Quando però, alla fine della mostra, ci si imbatte nel futurismo, si capisce che l’Ottocento è davvero finito. Ora la pittura non è più descrizione o fantasia, ma qualcosa che non c’era mai stato prima: un linguaggio, per così dire, autonomo. Non c’è come vedere le opere dei futuristi dopo quelle ottocentesche e Belle Epoque (in mostra carte, collage e qualche quadro di Balla, Boccioni, Carrà, Sant’Elia, Sironi e compagni), per capire che con loro non cambia solo un’epoca, ma cambia l’arte. I loro treni e le loro macchine non hanno nulla a che fare con i paesaggi precedenti, anche quelli più inventati. Perché la pittura, ora, è soprattutto un’esperienza mentale.