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 2015  maggio 20 Mercoledì calendario

NON BUSSATE ALLA MIA PORTA

[Intervista a Mika] –
La prima versione di Mika che incontro a Milano è adrenalinica. Ha appena finito di posare per questo servizio fotografico. «Un fotografo deve spingerti a fare cose che all’inizio non avevi messo in conto. Credo che sia un po’ come sbucciare una cipolla, strato dopo strato».
La seconda versione, nella sua casa di Londra, è dolorante. «È sempre così», dice, «quando sono troppo stanco mi ammalo».
È preoccupato perché nel giro di pochi giorni deve volare a New York per un concerto.
Il nuovo album, No Place In Heaven, almeno quello, è pronto da un bel po’. Uscirà il 15 giugno, anticipato dal singolo Good Guys.
Mika siede vicino al caminetto acceso, nella stanza con noi c’è anche il suo labrador che cerca disperatamente di attirare la sua attenzione con una pallina da tennis.
A un certo punto, oltre la porta a vetri vedo passare il suo compagno, il film-maker di origini anglo-greche Andreas Dermanis. Lui il nome non lo fa, ma li ho visti paparazzati l’anno scorso e, anche se lo inquadro per pochi secondi, mi sembra molto più carino di come appariva in quelle foto.
Sul tavolo c’è un portatile. Mika lo apre e cerca un brano che mi vuole leggere. Come mi aveva raccontato nel nostro incontro precedente, sta scrivendo un libro di cui avrete qualche piccola anticipazione qui sotto e che lui definisce «una sorta di diario poetico, fatto di capitoli che non seguono un ordine cronologico». Quando ho riascoltato le registrazioni ho pensato: e se facessi qualcosa del genere con questa intervista? Così mi sono presa la libertà di usare le parole di Mika per tracciarne un ritratto, fatto di capitoli che non seguono un ordine alfabetico.
L
come libro
«Sto finendo di scriverlo, uscirà in autunno per Rizzoli. S’intitola Diario di un ottimista accidentale. All’inizio doveva essere una raccolta di articoli che avevo già scritto. Ma quando li ho ripresi in mano, ho pensato che erano uno schifo. Allora li ho risistemati. Peccato che, a quel punto, mi sono accorto che li odiavo, suonavano falsi. Li ho buttati via e ho cominciato a scrivere dei racconti che vanno dai miei antenati in Siria a mia nonna in California, che si ritrova seduta accanto a Grace Kelly, e si mette a piangere perché non capisce l’inglese».

P
come pessimista
«Fondamentalmente credo di essere un pessimista. Chi lo è in generale è più felice. Gli ottimisti sono mocciosi viziati. Per loro è ovvio che vada tutto bene. I pessimisti apprezzano di più i successi perché non li danno per scontati. Quando mi succede qualcosa di positivo, lo considero un “incidente”, frutto di un caos perfetto. Mi aiuta a impegnarmi di più. Mettiamo che stai scrivendo una canzone: se pensi che potrebbe non funzionare, dai il massimo per far sì che non accada. Avere dubbi su se stessi è salutare. Fin da piccolo nessuno mi ha mai detto che ero bravo. I miei insegnanti di musica e di canto mi facevano i complimenti solo se facevo qualcosa di eccezionalmente buono. Sentirsi dire “bravo” era un vero premio. Nella mia famiglia siamo tutti così, non ci congratuliamo mai l’un l’altro. A meno che non ci sia un motivo speciale».

G
come galera
«Mia madre mi disse: “Uno come te ha solo due possibilità: o fai davvero bene o fallisci miseramente. Vuoi diventare famoso o finire in galera?”. Avevo nove anni, me lo ricordo perché avevo appena cominciato a studiare canto. Credo che avesse intravisto in me un’attitudine a prendermi gioco delle situazioni, a provocare, a comportarmi fuori dagli schemi, tutte cose che potevano mettermi nei guai o spingermi a ottenere grandi risultati. Ha capito che doveva indirizzare nel verso giusto, creativo, le mie energie. Un Mika annoiato sarebbe stato un guaio anche per se stesso, e lei lo sapeva. E ha avuto la capacità di trattare ognuno dei suoi cinque figli (Mika ha due sorelle più grandi, Yasmine e Paloma, più una sorella e un fratello, Zuleika e Fortuné, più giovani di lui, ndr) in maniera completamente diversa, a seconda della personalità. Con me era molto, molto dura».

P
come papillon
«Da bambino arrivavo in classe sempre in ritardo. Un’ora, un’ora e mezzo. Odiavo andare a scuola perché non riuscivo a leggere e a scrivere, e in Francia il sistema scolastico era piuttosto crudele. Quando siamo andati a vivere in Inghilterra e ho iniziato a frequentare una scuola a Londra, mi sono sentito dire: “Non sei stupido, sei dislessico” (nel 1984 i genitori erano evacuati da Beirut per via della guerra civile e si erano trasferiti prima in Francia, poi, quando Mika aveva 9 anni, in Gran Bretagna, ndr). Era la prima volta. Nel giro di poco passai dall’insufficienza al massimo dei voti. Però, cominciarono a considerarmi diverso per altri motivi. Nell’istituto francese che frequentavo, tutti indossavano l’uniforme, mentre in quello inglese non era richiesta. Iniziai a indossare i miei vestiti e lì arrivarono i problemi. Mi presentavo con il papillon e le camicie a pois. Oggi vesto in maniera piuttosto normale, e a volte mi domando se alla fine abbiano vinto loro e siano riusciti a cambiarmi».

S
come strega
«Sembra che tutto nella mia vita sia successo intorno ai 9 anni ma è vero che proprio a quell’età venni espulso da scuola. Avevo un’insegnante terribile: ogni anno sceglieva 3-4 ragazzini da prendere di mira. Scriveva poesie per umiliarci e le faceva recitare al resto della classe. Mi faceva stare in piedi sul banco o sulla sedia per un’ora di fila. Cominciai a stare male, tanto che smisi di parlare. Andare a scuola era così orribile che non mi preoccupavo nemmeno di portare i libri. Una mattina lasciai l’intera cartella a casa. Mia sorella, Paloma, se ne accorse e me la portò. Quando entrò in classe, l’insegnante mi fece alzare e cominciò il solito “trattamento”. Mia sorella, che ha due anni più di me, era così scioccata che corse a casa e raccontò tutto a mia madre, che a sua volta chiamò mio padre. Lui si presentò nel cortile dove ci radunavano, si avvicinò all’insegnante e le disse: “Signora, adesso le ripeterò tutto quello che ha detto a mio figlio, e vediamo che effetto le fa”. E cominciò a voce alta: “Lei è stupida, lei non fa il suo lavoro come dovrebbe”, e così via. La maestra svenne, e lo accusò di averla aggredita. Mio padre e io fummo convocati. Gli dissero: “Non tornate mai più”. Andammo via e mi ricordo che, camminando verso casa, mio padre, mia sorella e io e ci tenevamo per mano e cantavamo: “La strega è morta, la strega è morta” dal Mago di Oz».

M
come mamma
«Lavora con me, come stylist, quando devo fare un servizio fotografico o apparire in Tv. È lei che ha avuto l’idea di collaborare con Valentino ed è stata sempre lei, con mia sorella Paloma, a presentarmi Christian Louboutin (che, prima di allora, non aveva mai disegnato scarpe da uomo, ndr). Ragiona fuori dai meccanismi dell’industria della moda, ha un gran senso dello stile e mi spinge a scegliere abiti molto più stravaganti o rock di quelli in cui mi sentirei, per natura, a mio agio. Nell’album c’è un brano, All She Wants, su una donna che ha un solo desiderio: “Un figlio diverso da quello che ha”. Parla di mia madre? Certo. Mi riferisco a come mi sentivo da ragazzo, la sensazione che per lei sarebbe stato molto più semplice avere un altro genere di figlio e il sospetto che proiettasse le sue speranze su mio fratello, sognando che almeno lui avrebbe un giorno sposato una bella ragazza libanese. Quando mia madre ha sentito la canzone le è piaciuta moltissimo, ma non ne abbiamo parlato, non discutiamo mai di argomenti del genere. Le canzoni servono a raccontare quello che non comunichi in altro modo. C’è un altro brano che in Francia ha avuto molto successo, s’intitola Elle me dit. Il senso del testo è: “Mia madre mi dice questo, quello e quell’altro ancora, e poi mi dice che un giorno morirà ed è la prima, fra tutte, che mi fa felice”. A volte, nella crudeltà aperta e giocosa c’è molto più amore che nelle false frasi fatte. Il romanticismo mi fa paura. Lo trovo cattivo, volgare, una fonte di delusioni».
S
come soldi
«La mia famiglia ha perso tutto due volte. Sappiamo che cosa vuol dire avere soldi e non averne per niente. C’è un passaggio nel libro in cui ne parlo: siamo in viaggio verso il Sud della Francia e dobbiamo fermarci a dormire. Ma come fai a trovare una sistemazione decorosa per due adulti, cinque ragazzi e un coniglio se hai pochi soldi in tasca? Per fortuna mia madre trovava sempre una soluzione. Suo padre aveva lasciato Damasco in groppa a un asino ed era sbarcato a Ellis Island come molti altri emigranti. Nel giro di poco aveva fatto fortuna e messo su una famiglia numerosa, che però si ritrovò senza un soldo quando lui morì. Come tutti quelli che sono cresciuti nel benessere e che si sono trovati senza nulla, mia madre ha sempre lottato per rimanere la stessa persona anche quando di soldi non ce n’erano più. Una caratteristica che ha trasmesso a noi figli. Nei periodi brutti, “teneva in piedi la situazione” con la creatività e la musica, è per quello che siamo tutti diventati artisti. Quando non hai niente, puoi sempre creare qualcosa: suonare, disegnare. I primi guadagni li ho messi da parte per comprare la mia casa a Londra. L’idea di avercela mi faceva sentire più al sicuro. Anche se adesso sto economicamente bene, mi sono imposto un bel po’ di regole e limitazioni: non lascio mai che a orientare le mie scelte sia il denaro e spendo con attenzione. Ma quando vado in vacanza non parto mai da solo: invito gli amici, i familiari e i loro amici. Lo stesso quando si tratta di uscire a cena. Non mi piace stare da solo. E dai tour non ho mai guadagnato niente perché spendo tutto in allestimenti, musicisti, luci. I concerti devono trasportare le persone in quello che immaginano sia il tuo universo e far sì che pensino: “È esattamente come me lo aspettavo”».

F
come famiglia
«Mio padre e mia madre stanno ancora insieme. Di lui parlo poco perché è una persona molto riservata. Lavora come consulente, vive tra Bahrein e Dubai, in Medio Oriente. Non ha mai vissuto in nessun posto per più di sei mesi di fila. Si trovava in Kuwait poco prima che scoppiasse la prima guerra del Golfo e venne preso in ostaggio dagli iracheni. Quando finalmente lo liberarono provammo una sensazione strana. Da bambino sei così felice all’idea che tuo padre torni a casa che quando la realtà è diversa da come te l’eri immaginata, la rifiuti. Non era come ce lo ricordavamo, era magrissimo, con la barba. Per un po’, smettemmo di chiamarlo papà: ci riferivamo a lui come Mike. Oggi viviamo sparsi per il mondo. Zuleika ha studiato design di gioielli e si divide tra Dubai e Bangkok; Paloma e mio fratello, che studia Architettura, sono a Londra; Yasmine (nome d’arte DaWack, collabora con Mika come illustratrice, ndr) sta a New York».

G
come gay
«Qualche tempo fa, in Francia, ho sentito un tizio che diceva: “Ormai solo i gay vogliono sposarsi”. Forse voleva fare lo spiritoso ma può essere molto pericoloso denigrare la normalità. Non stiamo parlando di diventare tutti uguali, stiamo parlando di garantire la libertà di scelta, di proteggere le persone dalle discriminazioni, di dare a tutti gli stessi strumenti per poter riuscire nella vita. Una volta la comunità gay era più creativa perché emarginata? Ricordiamoci che l’obiettivo di tutte quelle espressioni artistiche, musicali, letterarie era arrivare all’uguaglianza. Non si è lottato per la normalità, ma per gli stessi diritti. Ci sono posti nel mondo dove uomini e donne vengono linciati, persino uccisi, perché omosessuali. Dire che la normalizzazione dell’omosessualità ha reso i gay meno creativi sarebbe come dire che la lotta per l’eguaglianza fra i sessi ha reso le donne meno interessanti».

B
come buone notizie
«La canzone Last Party, nel nuovo album, si ispira a un fatto vero. Quando Freddie Mercury scoprì di avere l’Aids organizzò una festa, una sorta di orgia a dir la verità. Mi sono chiesto: come reagiscono le persone di fronte a una notizia terribile? Io non dimenticherò mai la notte in cui mia sorella Paloma precipitò da una finestra (nel 2010, i medici temevano potesse rimanere paralizzata, ndr). Una sua amica bussò alla mia porta alle quattro del mattino. Ero in boxer e T-shirt, corsi fuori, senza vestiti, senza scarpe fino al suo appartamento. La polizia mi bloccò. Mi dissero che potevo scegliere: aspettare che arrivasse l’ambulanza o andare da lei subito. Pensai che dovevo vedere con i miei occhi che cosa era successo per poter affrontare la situazione. Da allora non sopporto le persone che bussano. Fuori dal mio camerino c’è sempre un cartello: “Non bussate”. E non ho mai più comprato fiori bianchi: quella sera mia sorella aveva organizzato una festa per l’inaugurazione del suo nuovo appartamento, e come regalo le avevo mandato centinaia di fiori bianchi. Come ho reagito a quello che ero successo? All’inizio in maniera razionale: ho cancellato tutti i miei impegni di lavoro per rimanere a Londra con lei. Poi, appena ho saputo che era in pericolo di vita, sono scappato. Ho preso un volo per Montréal. La prima notte che trascorsi là scrissi Underwater, il giorno dopo Origin Of Love. Non sapevo che cosa avrei fatto dopo. Ero partito lasciando tutto. Al mio compagno avevo detto che non sarei più tornato. È stata l’unica volta che ci siamo lasciati. Per riconquistarlo ho dovuto darmi parecchio da fare. Quando mi ha rivisto non mi ha detto: “Prego, accomodati”».

A
come amore
«Siamo insieme da otto anni, ma se all’inizio della nostra storia mi avesse chiesto: “Pensa che durerà a lungo?”, mi sarei messo a ridere: “Impossibile”. Se stiamo ancora insieme è perché non ne so la ragione, semplicemente è giusto per entrambi. Il rapporto tra lui e mia madre a volte è turbolento. Può immaginare: una libanese e un greco insieme. Diciamo che sono entrambi molto territoriali. Ogni volta che abbiamo un po’ di tempo libero, ci si vede da qualche parte: alla fine stiamo insieme parecchio. È interessante come, a volte, la distanza avvicini le persone».