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 2015  maggio 22 Venerdì calendario

«SE I MIGRANTI FOSSERO DAVVERO POVERI

NON POTREBBERO ARRIVARE DA NOI» –
«Rotto». Dice proprio così David Abulafia: «Rotto». E allora capisci che non stiamo parlando di un mare, ma di un’opera d’arte o d’alto artigianato. Come se il Mediterraneo fosse un vetro di Murano, o un Capodimonte andato in pezzi. E lo dice senza l’angoscia di chi ha perso un oggetto prezioso appartenuto a migliaia e migliaia di generazioni; neanche quell’acqua alla quale ha dedicato l’intera esistenza, scorrazzando nella Storia del Mediterraneo agile come un fenicio sulla sua quffah — tanto che a un certo punto dell’incontro con Sette la chiama Mother sea, Madre Mare — fosse stata cosa d’altri, acqua passata insomma, rispetto al vivace e vitale Cam River che attraversa Cambridge, con gran vociare di studenti vogatori, proprio qui sotto le finestre e oltre il roseto della sua spartana abitazione settecentesca. Ma il fatto è che Abulafia, il più grande storico del Mediterraneo, è stato il primo già molti anni fa a stabilire la fine di quel cosmos inimitabile, caveau liquido dell’umanità: da ben prima che si trasformasse in un vero cimitero di cadaveri il professore aveva razionalmente preso atto che il tempo del “Grande Mare” era defunto: «Dagli anni Cinquanta non è più centro di gravità nella Storia, luogo dell’ordine che reggeva le differenze. E oggi è solo una frontiera. Quel misero uno per cento della superficie marina globale, per millenni macchina della Storia e luogo d’incontro più di ogni immenso oceano, è ora una piccola, ma tremenda barriera d’acqua».
Fu una tempesta geopolitica perfetta, dice Abulafia. Proprio mentre avveniva il processo di decolonizzazione su quella costa, dalla Siria al Marocco, che era stata nell’orbita di Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna, l’Unione Sovietica stabiliva la sua influenza in Africa e Medio Oriente: nuovi stati come l’Algeria e l’Unione delle repubbliche arabe, compresi Egitto e Siria, guardarono a Mosca per risorse, aiuti militari e guida strategica: «Non sono un nostalgico del colonialismo», dice, «ma è certo che la fine del colonialismo è avvenuta nel momento sbagliato». Allo stesso tempo i Paesi della costa settentrionale del Mediterraneo, «soprattutto Italia e Spagna che a quel mare dovevano tutto, ma proprio tutto, gli hanno girato le spalle, lo hanno rinnegato. Hanno guardato alla comunità europea, al Settentrione protestante, pensando che quella fosse la nuova stella polare. E in un certo senso hanno avuto ragione, perché quella scelta ha portato grande crescita economica, inoltre il centro di gravità della Storia si spostava indubbiamente a Nord, sempre più a Nord… Qualcuno dice addirittura che il prossimo Mediterraneo sarà l’Artico...». Ma si è persa, secondo Abulafia, l’ultima grande opportunità: «Conservare lo spirito della comunità mediterranea: in quel momento bisognava seguire le rotte degli avi e rinsaldare gli antichi fili con il Nord Africa e il Medio Oriente e valutare meglio le enormi potenzialità di Paesi come l’Algeria e la Tunisia». Ma la tempesta non era ancora abbastanza perfetta: «Con il crollo dell’Unione Sovietica il Mediterraneo offriva una nuova occasione di riprendere quei fili vitali ma finì affogata in un mare di parole».

Gli scafisti? Una tradizione millenaria. Abulafia fa un esempio per tutti: «Ricordiamo la fantomatica Union pour la Mediterrannée di monsieur Sarkozy. Annunciata come una visionaria operazione per creare un nuovo assetto economico meridionale e per salvare la biodiversità marina e invece era solo un modo per escludere la Turchia dall’Unione europea. Anche dei tonni non si è più tanto parlato…». Il Mediterraneo di Abulafia (Il Grande Mare, Mondadori, il suo ultimo libro tradotto in Italia) non è una bella cartolina con il pino marittimo, la scogliera e la barchetta sullo sfondo. Ma è un mare umano, troppo umano, che quindi ha visto, più di ogni altro specchio d’acqua al mondo, anche il peggio dell’umanità, la sua faccia sconcia e miserabile: «Nessun mare è stato infestato da pirati come il Mediterraneo, per lunghi periodi è stato dominio incontrastato di banditi. Gli attuali scafisti sono solo l’ultimo esempio di una tradizione millenaria; come millenaria è la necessità di estirparli», dice. E ricorda che dopo le Guerre Puniche, quando Roma si trovò unico superpotere della regione, fu bloccata per lunghi anni dalla minaccia bucaniera, da oriente a occidente. Anche Giulio Cesare venne preso in ostaggio al largo di Rodi e, una volta rilasciato dietro riscatto, organizzò una flotta, ritornò e crocifisse tutti i suoi aguzzini: «Siccome lo avevano trattato con dignità concesse loro di essere prima sgozzati per alleviarne le pene». Subito dopo Pompeo avviò una campagna devastante, «pari solo a quella che Thomas Jefferson scatenò ai primi dell’Ottocento sulle coste maghrebine, soprattutto libiche, contro i pirati barbareschi che impedivano la libera circolazione ai mercantili americani — tra le misure ci fu anche quella di distruggere tutte le imbarcazioni nei porti del Nord Africa — ci furono esecuzioni sommarie senza testimoni. Pompeo, dicevo, ebbe un mandato e una flotta a disposizione per un periodo di tre anni, ma eliminò il problema in tre mesi e senza fare un morto, ma offrendo ai pirati terra da coltivare in cambio della vita». Il Mediterraneo, sostiene Abulafia, unisce e divide, così come è allo stesso tempo piccolo e grande: è abbastanza facile attraversarlo e ciò lo ha reso un luogo d’incontro tra le civiltà di tre continenti, Europa, Africa e Asia. «Ma la distanza fra le sue rive è stata a volte incolmabile, come ad esempio nel periodo successivo alla caduta dell’Impero romano quando era quasi impossibile commerciare sull’intero bacino. Quello era anche un periodo», continua lo storico mentre versa il tè all’ospite e dalle finestre entra l’eccitante primavera inglese, «in cui migrazioni di massa cambiarono il volto del Mediterraneo, con una popolazione germanica, i Vandali, che arrivarono a stabilirsi a Cartagine… quindi una migrazione da Nord a Sud». Abulafia si guarda bene dal cadere nel giochino della Storia che si ripete, non offre mai spunti così ghiotti da indurci nella tentazione di cogliere il parallelo illuminante, quello che ci potrebbe spiegare tutto, in un certo senso rassicurarci: «Certo, il Mediterraneo è stato altre volte teatro di migrazioni e questa volta arrivano da diverse direzioni, dall’Asia e dall’Africa. Non sono guidate da signori della guerra come Alarico o Genserico, anzi, spesso originano da guerre e devastazioni; soprattutto dalla fine miserabile e dalle macerie dell’ultimo residuo di melting-pot mediterraneo, quali erano la Siria e la Libia…». Sarà la Terza guerra mondiale di cui parla il Papa, lo scontro tra religioni o tra etiche contrapposte all’interno della famiglia abramitica mediterranea, perché le religioni non sono in fondo il fondamento dell’etica? «Noi viviamo nella nostra etica, affermiamo ad esempio un certo ruolo della donna nella modernità e loro rispondono con i barconi… O con la scimitarra. Ne fanno le spese gruppi religiosi incompatibili con l’Islam radicale, i cristiani siriani, gli yazidi, i copti, gli sciiti musulmani.. e la lista può proseguire». «Le ultime vestigia del Mediterraneo, l’inimitabile convivencia mediterranea costruita dal diritto e dai mercanti, in un certo senso dal capitalismo mercantile di Alessandria, Salonicco, Venezia, Genova… da quei porti sofisticati senza i quali New York non esisterebbe… parlo, intendiamoci, di un capitalismo che non ha nulla a che fare con le corporation, ecco quelle vestigia sono scomparse per sempre insieme alla Siria», dice l’ebreo di origine sefardita i cui avi fuggiti dalla Spagna, spiega, in Italia furono chiamati Bolaffi. Dalle finestre entrano il profumo del rododendro e il canto dei merli in amore, l’incanto di Cambridge potrebbe essere quello di Famagosta o di Gibilterra. «Ti ricordi l’Albania?», chiede il prof. «Quell’esodo era il chiaro segnale che le faglie economiche del Mediterraneo si stavano muovendo. Ma quel fenomeno, visto ora, appare come un problema locale, parte della storia tragica del comunismo balcanico, risolto con l’aiuto, straordinario, soprattutto dell’Italia. Ora è diverso. Qui si muovono strati di popolazione africane ed asiatiche pronte a rischiare la vita per abbandonare la terra in cui sono nate. Ma io ho una opinione un po’ diversa rispetto a quella corrente, ad esempio qui in Gran Bretagna, dove questa migrazione viene interpretata come l’esodo dei miserabili in fuga dalla crudele globalizzazione. Io penso che i veri poveri non possono permettersi decine di migliaia di euro per pagare il loro viaggio, spesso tragico, e rimangono nella loro terra…». Abulafia ora sembra un archeologo, più che uno storico, il suo Mediterraneo diventa paesaggio di rovine; tutte quelle lingue mescolate in un solo mare, un unico flutto a levigare insieme gli scogli e il logos, quell’atomo del pensiero occidentale che ha originato la creatura inimitabile del Grande Mare, non hanno più parole per dire o spiegare ciò che si vede alla tv, ad esempio la ferocia dei nuovi barbari dell’Isis: «Ci ho pensato a lungo», dice, «ho passato in rassegna i millenni, ma nel Mediterraneo non si trova traccia di una simile violenza. Questo è al di fuori dal logos, dalla volontà di dominio degli imperi, non è neanche paragonabile alla violenza cieca delle guerre di religione. Secondo me c’è solo un precedente ed è quello della rivoluzione culturale maoista… Ma forse mi sbaglio. Il Mediterraneo mi ha insegnato a non avere certezze».