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 2015  maggio 22 Venerdì calendario

COM’ERA DIFFICILE SEGUIRE LA STRADA DELLE MERAVIGLIE

COM’ERA DIFFICILE SEGUIRE LA STRADA DELLE MERAVIGLIE –
Ora che sono alle viste milioni di visitatori in arrivo da tutto il mondo, due libri ci ricordano che il turismo è nato in Italia e che sono stati proprio i viaggiatori stranieri a rivelare gli italiani a se stessi, a costruire con scritti, lettere, relazioni, quadri e disegni l’identità che ancora oggi ci viene attribuita e in cui possiamo riconoscere una fisonomia che era già tale ben prima dell’Unità del 1861. Attilio Brilli ci propone Il grande racconto del viaggio in Italia (Il Mulino, con un ricco corredo iconografico), Cesare De Seta mette a fuoco l’Italia nello specchio del Grand Tour (Rizzoli). Entrambi sono una miniera di notizie, aneddoti, storie gustose.
I piaceri della carne. Che cosa significava viaggiare in Italia, almeno dalla metà del Cinquecento, quando prende forma quello che sarebbe diventato per tutti il Grand Tour, l’esperienza formativa per eccellenza, un must per i felici pochi che se lo potevano permettere? Era anche un rito di passaggio, una prova iniziatica, una metafora delle sorprese che la vita può offrire, nel bene e nel male. Richiedeva spirito d’avventura, capacità di sopportazione, apertura al diverso. Era un percorso obbligato per artisti, pittori e architetti, una risalita alle radici di una cultura che veniva sentita come patrimonio comune, punto di riferimento ineludibile. La passione antiquaria, le manie del collezionismo trovavano qui vaste praterie a prezzi modici. Questa terra infestata dai banditi, deturpata da vistose sacche di miseria e degrado, immersa nel torpore semicomatoso di una decadenza senza fine, fiaccata dalle febbri malariche, amministrata da governi non propriamente esemplari (lo Stato Pontificio, i Borbone di Napoli) rappresentava pur sempre il Paese ideale per lasciarsi vivere, liberare i sensi, concedersi quel che altrove era vietato. Non a caso per Defoe, «la lussuria ha scelto la torrida terra d’Italia/ dove il sangue fermenta generando stupri e sodomia». Boswell sente che qui tutto gli è permesso, e tutto deve osare (d’altra parte sembra che i mariti italiani non si preoccupino troppo se i forestieri amoreggiano con le loro mogli). Terra di turismo sessuale, l’Italia allenta gli scrupoli morali e favorisce la creatività. Qui ci si può permettere di essere un po’ selvaggi e “naturali” come quelle canaglie dei suoi pittoreschi abitanti. A Napoli, l’abbandono dei formalismi nordici procura a Goethe una capacità percettiva più fluida e sottile, una scrittura più calda. A Roma, lo scienziato-poeta si era già sciolto al calore di Faustina, incantevole figlia di un locandiere, la sua Beatrice.
Disfunzioni endemiche. L’Italia offre un esotismo a buon mercato, nobilitato dalle antiche vestigia. Percorrerla significa concedersi un Safari culturale, un’esperienza totale in cui i brividi dell’imprevisto si mescolano alle emozioni artistiche, con il doppio piacere di sentirsi colti e superiori ai nativi. Persino l’osservazione di arretratezze e disfunzioni offre motivi di ammaestramento a chi avrà responsabilità di governo. Non sempre le attese di chi varca faticosamente le Alpi sono ripagate. Le delusioni dettano a Swinburne e a Lessing, a Montesquieu e a de Sade giudizi severi, persino acri. Nel 1836 il giovane Viollet-le-Duc scrive al padre che in Italia tutto «è estremamente penoso: birri e dogane sono insopportabili, il dialetto milanese orribile, gli italiani degenerati, gli austriaci ridicoli, la frutta cattiva, i locandieri ladri, i passaporti cari, le garitte lombarde orribilmente gialle e nere, le insegne papali sporche, i soldati napoletani sudici, quelli del papa miserabili, la musica sgradevole, i teatri noiosi, gli abati ciarlieri, i carabinieri lesti a sparire quando li si cerca, il manzo raro, il sanguinaccio onnipresente, il vino acido abbondante, le pulci in così gran quantità dappertutto».
Confini. Postilla Attilio Brilli: «L’Italia dei bettolieri, dei cavallanti, dei vetturini, degli staffieri, dei postiglioni, dei corrieri, degli sguatteri, delle cameriere narrata da Smollett, da Sharp, da Ruskin è popolata di gaglioffi e birbanti di tutte le risme; le locande assomigliano a immonde sentine dove un’umanità abietta ha lasciato la scia del proprio passaggio; le stazioni di posta sono stamberghe nelle quali s’acquatta l’alea del più perverso destino». A Torbole, a Goethe che gli chiede dov’è la latrina l’oste risponde serafico: «Dove vuole, signore, dappertutto!». A Buonconvento alla carrozza di Smollett vengono attaccati cavalli non domati, e la vettura si ribalta; a Radicofani un’ostessa propina a Sterne delle uova marce, provocandogli gravi disturbi intestinali. Agli inizi dell’800 il francese Creuzé de Lesser decide che «l’Europa finisce a Napoli, e piuttosto male. Il resto è Africa», eppure nessuno vuole rinunciarvi, anche perché l’Italia è perfetta per confermare a ognuno l’esattezza dei preconcetti con cui è partito. Viaggiare era una faccenda rischiosa e defatigante, che richiedeva pazienza e tempra atletica. Le strade erano mediamente pessime, le carrozze non potevano far molto per limitare i disagi. In Inghilterra a metà 500 avevano inventato delle sospensioni rudimentali, che attutivano i colpi, e poi via via balestre, stanghe, assali, molle, cinghie, ma guasti e ribaltamenti erano all’ordine del giorno, e con la pioggia andava anche peggio. Anche se gli interni erano imbottiti sempre meglio, le irritazioni cutanee, specie al fondo schiena, erano frequenti, e se ne lamenta anche Mozart. Se non si disponeva di un mezzo proprio (peraltro soggetto a pesanti dazi doganali) o se non si trovava sul posto un vetturino affidabile, in un postale si poteva trovare di tutto: avventurieri, mendicanti, monaci, guitti, domestici, prostitute, camerieri, ceffi poco rassicuranti. All’inizio, dice Hugo (1842) sono tutti allegri e di buon umore. Dopo meno di un’ora il nervosismo dilaga. La polvere sollevata dalle ruote è un tormento. Manca l’aria, si accumulano gli afrori, si discute sempre più ferocemente se tenere aperto il finestrino e quanto. C’è chi, anche per risparmiare, viaggia sul tetto, il cosiddetto imperiale, dove c’è una ringhierina per contenere i bagagli, o accanto al cocchiere. Stendhal preferisce il calesse scoperto, che gli consente una full immersion nel paesaggio. I ponti sono rari (per lo più in legno, per essere smontati in caso di esigenze strategiche). La velocità media si aggira sui dieci chilometri all’ora, al giorno se ne possono coprire da 70 a 80. Il passaggio del Moncenisio (le carrozze venivano smontate all’inizio della salita e rimontate al valico) richiede due giorni, ce ne vogliono da due a quattro per andare da Torino a Milano o a Genova, da tre a sei da Firenze a Roma, da due a quattro da Roma a Napoli. Le tappe sono scandite dalle stazioni di posta. Un cambio di cavalli richiede almeno un’ora, ma meglio prevederne due. In compenso c’è chi sostiene che la diligenza è una sorta di arena democratica, in cui si possono scambiare libere opinioni.
Bibliotechine da viaggio. La scelta della carrozza era decisiva e veniva soppesata con cura. Le più apprezzate erano inglesi e ospitavano bibliotechine da viaggio (peraltro sospette ai doganieri, sempre a caccia di opere sovversive), lettini smontabili, batterie da cucina per il cuoco al seguito, cassettiere, portaliquori, e addirittura una seggetta, la cosiddetta “comoda” (adattabile a un buco praticato sul pianale della carrozza), per i bisogni urgenti. A Londra nel 1816 venne molto ammirata la carrozza speciale (costruita dalla ditta Symons di Bruxelles) con cui Napoleone sfrecciava da un capo all’altro d’Europa, l’equivalente di un autobus elettorale d’oggi. Era divisa in due settori e poteva servire da cucina con dispensa, spogliatoio, studiolo e camera da letto. Gli oggetti erano stipati con precisione millimetrica, ognuno al suo posto. C’erano il nécessaire per la toilette, piatti, posate, candelieri, un fornellino scaldavivande, una cassettina per le monete d’oro (l’argent de poche), bacinelle, boccette di essenze e profumi; ma anche oggetti di scrittura, lenti e pettini, porta abiti, cannocchiali, strumenti di misurazione, cronometri e persino una corona tempestata di diamanti, se occorreva fare sfoggio di fasto. I più facoltosi avevano due carrozze, come Ludovico di Baviera: oltre a quella padronale, una seconda stracolma di vettovaglie e vini pregiati, con servitù e seguito. Erano i cosiddetti fourgon, mandati avanti per saggiare le strade e prenotare le locande. Per tutti c’è la tortura delle dogane. Ad ogni miglio bisogna esibire passaporti, pagare gabelle, subire ispezioni e taglieggiamenti. Da Bologna a Parma, conteggia Ruskin nel 1840, sono dodici soste, un franco da pagare ogni volta: «Nell’intero sistema c’è un che di furtivo e di abietto». Più sicuri i viaggi per mare. Tra Calais e Dover le navi imbarcavano anche le carrozze, ma si fermavano sottoriva (gli ospiti venivano portati in salvo sulle spalle dei marinai). Battutissime la Marsiglia-Genova, e la Nizza-Livorno-Civitavecchia. Le cabine sono spartane, anche quelle del capitano, infestate dai parassiti, sentori nauseabondi salgono dalla sentina: veri porcili, si legge nel diario di sir Philip Francis (1772). La situazione migliora con i primi battelli a vapore, che fanno la loro comparsa tra Dover e Calais nel 1821 (due sole ore di viaggio con il bel tempo). L’avvento della ferrovia consente di raggiungere luoghi prima altrimenti esclusi dai percorsi più noti. Però in treno Ruskin si sente “spedito” come un semplice pacco postale e rimpiange la libertà avventurosa dei vecchi viaggi. Anche Gounod lamenta che il treno vada troppo in fretta, che non lasci gustare niente. Vernon Lee trova scortese che muovendosi così alla cieca non si possano dedicare tempo e attenzione ai paesi che si attraversano di gran carriera. Agli inizi del ‘900 qualcuno conclude che l’Italia era il Paese più visitato e meno conosciuto d’Europa.
Stoviglie. Altro tormento, il banditismo, spesso più favoleggiato, immaginato e ampliato dai racconti che reale. Tra Roma e Napoli, i tratti più pericolosi sono tra Fondi e Terracina, ma pare che gli assalti siano per lo più mirati su mercanti e possidenti locali. Stendhal raccomanda alla sorella Paolina in partenza per l’Italia di vestirsi male (niente abiti bianchi, per carità) e non far mostra di soldi né di gioielli. Disagi non minori procurano le quarantene. Nei lazzaretti le condizioni igieniche, l’isolamento, la solitudine sono pesanti. Lo sperimenta il povero Rousseau quando arriva a Genova da Messina, dove è in corso la peste. Lo rinchiudono in un edificio bianco, dai grandi spazi vuoti, privo di tutto. Trovare un riparo confortevole resta sempre un’impresa. L’ospitalità pubblica comincia ad organizzarsi nel ‘500 con le “camere locande”, meno costose degli alberghi e meno scalcinate delle osterie di posta. Garantiscono vitto, alloggio e lavanderia, se ne servono anche Montaigne e Goethe. Però i bettolieri italiani sembrano non lavare mai le stoviglie di legno o coccio, e ancora negli anni sessanta dell’Ottocento l’americano Howells lamenta che le locande italiane puzzano di letame, «come se gli unici avventori fossero dei centauri».
Città d’arte. Ci sono luoghi in fama di speciale pericolosità. Le locande intorno a Radicofani sembrano riflettere la desolazione del paesaggio. Ci passa anche Dickens e si spaventa per la quantità di coltelli che vede ovunque, e per l’ostessa che sembra la moglie di un brigante. Nelle taverne ciociare e campane si cucina, si mangia, si dorme sui tavolacci o nella mangiatoia. Le pareti della locanda di Fondi sono coperte di sputi di tabacco e sostanze innominabili. Nel Sud per i bisogni collettivi c’è una damigiana di vetro impagliato.
Ma intanto si sviluppa un turismo stanziale nelle città d’arte, come Roma, Napoli, Venezia o Firenze, o i Bagni di Lucca, preferiti dagli Inglesi. Tuttavia anche quando sono ricavati in palazzi nobiliari, questi relais non sembrano molto accoglienti. A Louise Colet (amata da Flaubert) la stanza che le è stata assegnata in un palazzo di Ravenna sembra una camera mortuaria. Dumas osserva (1834) che gli alberghi italiani sono passabili d’estate, a parte i parassiti, ma gelidi d’inverno, perché al Sud non sembrano conoscere il civile uso del camino. È una legge uguale per tutti: le meraviglie d’Italia si conquistano a caro prezzo. Non a caso i bookmakers di Londra davano il ritorno da un viaggio nel Bel Paese a tre, e in Oriente a cinque. Quello con la terra dove fioriscono i limoni poteva anche essere un abbraccio mortale.

1-continua