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 2015  maggio 21 Giovedì calendario

TERRORISTI SENZA FRONTIERE

Quali sono le nostre frontiere politiche, geografiche e mentali? È una domanda che sorge spontanea dopo l’arresto del giovane marocchino Abdel Majid Touil, alias Abdallah. Ricercato dalle autorità tunisine per la strage al museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo, era sbarcato un mese prima della strage a Porto Empedocle. La vicenda è ancora confusa, la magistratura e le forze dell’ordine forse la chiariranno, magari con la stessa precisione con cui hanno funzionato i controlli incrociati per individuarlo.
Ma alcune reazioni a questo arresto sono sconcertanti. C’è chi chiede la chiusura delle frontiere, chi la sospensione degli accordi di Schengen. C’è chi si meraviglia - ma è da confermare - che esponenti del radicalismo islamico possano arrivare in Italia anche sui barconi. Ipotesi a volte smentita, altre volte sostenuta o adombrata dalle nostre stesse autorità.
Ma dove pensiamo di vivere qui in Italia? Siamo un Paese di frontiera in un continente, l’Europa, che non è sigillato dal mondo. Ma ci siamo già dimenticati degli attentati di Parigi a Charlie Hebdo, e di quelli negli anni passati di Londra e Madrid? Sotto le nostre coste sono in corso da anni conflitti devastanti: quello in Libia è il più vicino, poi ci sono la Siria, l’Iraq, le guerre africane del Mali, del Burundi, l’instabilità ormai cronica della Somalia, dell’Eritrea, del Sudan.
L’elenco è lungo e noi europei non siamo estranei a quasi nessuna di queste vicende. Quando nel 2011 francesi e britannici decisero di bombardare la Libia di Gheddafi, l’Italia si è forse opposta? Per motivi di opportunità politica e per difendere i nostri interessi economici ed energetici abbiamo partecipato alla missione internazionale con centinaia di raid aerei contro un Paese con cui avevamo firmato un trattato di amicizia e ospitato il suo leader a Roma pochi mesi prima. Era il 31 agosto 2010 e a omaggiare Gheddafi in visita nella capitale allora c’erano politici, uomini d’affari e una pletora di questuanti. La destabilizzazione della Libia, del Maghreb e del mondo arabo ha visto, almeno per un certo periodo di tempo, il nostro convinto contributo per non restare fuori dalle spericolate iniziative francesi, britanniche o americane.
In Libia siamo entrati in guerra, naturalmente senza dichiararlo apertamente. Così come accadde in Kosovo e poi Iraq, dove, dopo l’invasione americana del 2003, abbiamo partecipato alla missione con un contingente militare che fu vittima dell’attentato di Nassiriya. Ma ci piace pensare, ogni volta, che stiamo soltanto conducendo, come in Afghanistan, delle operazioni umanitarie. Facciamo anche quello, d’accordo, ma con il colpo in canna.
E veniamo alla Tunisia, che lotta dal 2011 con tutte le sue forze contro l’islamismo radicale per non sprofondare nella disgregazione che sta travolgendo la Sponda Sud. In una recente conversazione, confermata poi dalle autorità di Tunisi, l’ambasciatore Naceur Mestiri esprimeva tutte le sue perplessità su una missione militare sulle coste della Libia per contrastare gli scafisti. «Il risultato - diceva - potrebbe essere che negli anni futuri nessun occidentale rimetterà più piede nel Paese». Mestiri sottolineava che in Tunisia ci sono oltre un milione di libici, un forte potenziale destabilizzante. I nostri vicini di casa sono le sentinelle delle nostre frontiere ma li ascoltiamo malvolentieri e con sufficienza.