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 2015  maggio 18 Lunedì calendario

IL GOVERNO E LA POLITICA INDUSTRIALE COSÌ RENZI CAMBIA LE REGOLE DEL GIOCO

Potrebbe trattarsi del classico ritorno di fiamma del colbertismo, una pratica di intervento statale dell’economia che prende il nome dal famoso ministro delle Finanze del Re Sole. Fatto sta che l’agire del governo Renzi in economia è finito sotto i riflettori. Soprattutto dopo le indiscrezioni che vogliono l’Enel, società quotata in Borsa ma ancora al 25% controllata dallo Stato, pronta a scendere in campo per realizzare la rete a banda ultralarga in alternativa a Telecom. Tuttavia parlare di dirigismo o liberismo per la politica industriale di Matteo Renzi rischia di essere fuorviante, sembrano categorie del passato. Facendo tesoro della recente esperienza di David Cameron, che ha rivinto le elezioni in Gran Bretagna soprattutto per ciò che è riuscito a fare in campo economico, Renzi sembra muoversi senza un credo o un’ideologia prevalente. L’analisi di un anno circa di interventi nel campo dell’economia dell’attuale governo lo dimostra. Quando lo scorso gennaio Renzi ha inaspettatamente varato il decreto legge che obbliga le principali banche popolari del paese a trasformarsi in spa entro 18 mesi, ha provocato una sollevazione del mondo cooperativo e delle sue lobby. Ma la determinazione del governo su questo tema è stata tale che in due mesi il decreto è stato trasformato in legge e il passaggio è stato talmente apprezzato dagli investitori istituzionali e dalle autorità europee che la credibilità all’estero del governo Renzi in materia di riforme è cresciuta in maniera considerevole. L’intervento del governo sulle popolari, secondo chi gli sta vicino, risponde alla logica di rimuovere ostacoli alla formazione di un’economia moderna che con il tempo sono diventati giganteschi. Per farlo il governo può utilizzare gli strumenti della moral suasion o provvedimenti legislativi ad hoc. In questo ambito rientrano l’accordo appena siglato tra Mef e Acri per l’autoriforma delle Fondazioni di origine bancaria, un tema su cui il ministro Tremonti del governo Berlusconi ha sbattuto la testa per anni senza ottenere alcun risultato. Restando in campo bancario la moral suasion è stata utilizzata da Renzi anche per sollecitare il mondo delle banche cooperative (le cosiddette Bcc) ad autoriformarsi entro tre mesi. Mentre si sente parlare di un prossimo intervento del governo nel sensibile ambito del recupero crediti dove l’Italia versa in una situazione anomala: 4-8 anni per recuperare un credito incagliato contro la metà nei paesi più evoluti. «Si immagini un decreto legge di soli sei articoli che dimezzi i tempi del recupero crediti in Italia che portata enorme potrebbe avere. Di colpo le sofferenze e i crediti incagliati si rivaluterebbero enormemente», spiega una fonte vicina a Palazzo Chigi. La seconda direttrice di “interventismo” nell’economia su cui si sta muovendo il governo Renzi riguarda i grandi casi di imprese in crisi, che richiede una buona dose di coraggio e di assunzione di responsabilità. Lo ha fatto con l’Ilva: l’unica soluzione possibile era isolare l’azienda, portarla con una serie misure specifiche in “garage” (solo lo Stato poteva far rispettare le regole ambientali e la magistratura sbloccare 1,2 miliardi di crediti) per poi rimetterla sul mercato con un nuovo assetto azionario e sperare tra un paio d’anni nella rifioritura. Non si tratta di rifare l’Iri, come qualcuno si è precipitato ad affermare, ma far sentire l’autorevolezza dello Stato per rimettere in sesto e poi rivendere. Ad agosto dovrebbe essere varata la Newco con la presenza di Arcelor Mittal, il gruppo dell’acciaio franco indiano che ha mostrato interesse per l’azienda italiana e ha un piano industriale per rilanciarla. Si rischia di perdere l’italianità delle aziende in crisi? In alcuni casi è possibile ma è su questo terreno che, come accade in altri paesi europei, dovrebbe entrare in gioco il Fondo Strategico gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti. Vale a dire un investitore “paziente”, che non necessita di ritorni economici elevati e veloci, ma per le sue caratteristiche può permettersi orizzonti più lunghi e rendimenti meno eclatanti, ma sempre positivi. Se le aziende in questione fossero in perdita e il Fondo Strategico per statuto non potesse intervenire, ecco che il ministro Padoan sta lavorando al varo di un nuovo fondo “distressed” proprio per poter intervenire in caso di aziende industrialmente sane ma con bilanci in rosso. «Si pensi all’impulso per l’economia italiana se ogni anno si risolvessero dieci casi di aziende in crisi ma con buoni marchi e manifatture importanti per il Paese», commenta un’altra fonte vicina al ministero dello Sviluppo Economico. Se in gioco ci sono presidi tecnologici o di occupazione allora è giusto giocare in ottica difensiva sempre con il Fondo Strategico. Come si è fatto nel caso di Ansaldo Energia di cui il 40% è stato venduto ai cinesi di Shangai Electric mentre il 45% è rimasto in mano alla compagine italiana. Soluzione che non è stata adottata quando Marco Tronchetti Provera ha annunciato al premier l’imminente cessione della maggioranza del capitale di Pirelli ai cinesi di ChemChina. Forse perché in quel caso gli stessi imprenditori italiani sono riusciti ad assicurarsi sufficienti garanzie a salvaguardia della tecnologia e dell’headquarter, forse perché colto di sorpresa o forse ancora perché un intervento avrebbe comportato l’esborso di diversi miliardi di euro che il governo non aveva voglia di spendere o non sapeva dove trovare, Renzi non ha proferito parola. Guadagnandosi così il plauso di chi ritiene che il governo non debba metter becco negli affari tra aziende private, come succede nei paesi più liberisti in campo economico, Stati Uniti e Gran Bretagna. Il governo non ha espresso alcuna critica neanche quando Fca (Fiat-Chrysler) ha trasferito all’estero la sede legale (Olanda) e fiscale (Gran Bretagna). Probabilmente è stato colto alla sprovvista ma è opinione comune che con un po’ più di tempo a disposizione avrebbe dovuto trattenere la Fca mettendo sul piatto facilitazioni simili a Olanda e Gran Bretagna. L’utilizzo della leva fiscale in chiave di politica industriale è infatti un elemento molto sfruttato da diversi paesi occidentali ma non dall’Italia dove l’Agenzia delle Entrate pensa solo a recuperare soldi senza offrire benefici a chi vuol fare investimenti o altro. L’ultimo caso viene dalla tedesca Audi che vorrebbe produrre in Italia il Suv della Lamborghini ma la Slovacchia ha messo sul tavolo facilitazioni eccezionali e bisognerà vedere come andrà a finire. Tra i casi di “interventismo” la partita più intricata e scivolosa per il governo è il Piano per la banda ultralarga. Un caso che si lega alla tormentata storia della privatizzazione di Telecom avvenuta nel 1997 senza scorporare preventivamente la rete in rame per motivi strategici e di sicurezza. Oggi quel tipo di rete non risponde più alle esigenze di modernità del paese e giustifica una volontà del governo di spingere per la sua sostituzione con la fibra ottica su gran parte del territorio attraverso un Piano che prevede anche l’impiego di risorse pubbliche. Tuttavia non si può condannare la libera decisione del cda di una società privata che ritiene non soddisfacenti le condizioni proposte per entrare a far parte della società che dovrebbe realizzare la nuova rete (Metroweb). Fatto sta che Renzi per cercare di sbloccare la situazione sta spingendo sul’Enel, un’azienda a controllo pubblico ma quotata in Borsa, affinché scenda in campo per la realizzazione della rete in alternativa a Telecom. «La banda ultralarga è obbiettivo strategico. Non tocca al governo fare piani industriali. Ma porteremo il futuro presto e ovunque», ha twittato Renzi per cercare di motivare l’iniziativa del governo. Ma c’è il serio rischio di vedere contrapposte per un progetto così importante una società mista pubblico-privato (Metroweb-Enel) che compete con una società privata il cui asset principale è la rete telefonica. Vedremo come Renzi riuscirà a districarsi dalla complessa vicenda, non escludendo di prendere il toro per le corna facendo entrare direttamente la Cdp in Telecom in una sorta di rinazionalizzazione parziale. Nel suo approccio pragmatico Renzi di volta in volta si è spinto a chiedere consigli a imprenditori, avvocati, esperti di vario tipo prima di varare qualche provvedimento importante. L’autunno scorso ha seminato il panico quando voleva importare in Italia la disciplina fiscale britannica del “Non dom”, i non domiciliated, per la quale un residente che ha il domicilio permanente fuori del paese di origine non viene tassato per i redditi prodotti in altri paesi. Poi dal ministero del Tesoro lo hanno convinto che tale disciplina era inapplicabile in Italia. Sino a fine settembre Renzi potrà avvalersi dei consigli di Andrea Guerra, l’ex ad di Luxottica, che è stato ingaggiato a costo zero per gestire le partite economiche più delicate. Poi si vedrà, anche se spesso il premier si consulta con Vittorio Colao (Vodafone), con Mario Greco (Generali), con Sergio Erede (avvocato d’affari), con Andrea Bonomi (investitore di private equity), con Davide Serra (gestore di fondi), con Franco Bassanini (Cdp), con Vincenzo Novari (ad di 3 Italia) solo per citarne alcuni. Una sorta di cerchio magico dell’economia che suscita molte invidie tra chi non riesce ad accedervi. E malumore all’interno dello stesso entourage governativo che si sente poco considerato. Ma la Renzinomics non è una scienza esatta e non ha alcun totem intoccabile, varia di giorno in giorno con una buona dose di pragmatismo.
Giovanni Pons, Affari&Finanza 18/5/2015