Paolo Condò, SportWeek 16/5/2015, 16 maggio 2015
IL MALEDETTO INCANTESIMO DEL PUGILE “MAGO”
C’è sempre una percentuale di rischio, nella rincorsa alla gloria e al successo, ed è bene soffermarsi ogni tanto a meditare sulla cosa evitando di dare tutto per scontato. Dan Barry del New York Times è andato a cercare questo rovescio della medaglia in un piccolo appartamento working-class di Greenwich, Connecticut, dove l’uomo chiamato un tempo il Tyson russo sopravvive da un anno e mezzo in un letto ospedaliero, paralizzato e senza speranze di pieno recupero. Si chiama Magomed Abdusalamov, oggi ha 34 anni, e nel novembre del 2013 molti vedevano in lui un potenziale campione del mondo dei pesi massimi: fra questi quello in carica, Wladimir Klitschko, seduto in prima fila al Madison Square Garden per studiare il futuro rivale nel match che avrebbe dovuto aprirgli la strada verso i quartieri alti, contro Mike Perez. Sin lì Mago, l’altro suo soprannome, aveva vinto i 18 combattimenti disputati, quattro per k.o. e 14 per k.o. tecnico: una macchina da pugni proveniente dal Daghestan, precisamente da Makhachkala, la città di cui molto si è parlato un paio d’anni fa per il tentativo poi abortito di costruirci un top club calcistico: l’Anzhi.
Ma quella sera sul ring un diretto di Perez al primo round gli ruppe la parte orbitale dell’osso frontale. Mago tornò al suo angolo e, per la prima volta nella sua breve carriera, chiese la sedia: sin lì aveva sempre atteso il gong in piedi, per non mostrare debolezza. Sua moglie Bakanay capì subito che qualcosa non andava e lo stesso pugile disse all’angolo «mi sono rotto qualcosa». Nessuno, però, si prese la responsabilità di fermare il match, né l’arbitro, né i medici a bordo ring, nemmeno i secondi di Abdusalamov, esposto a un supplizio di altri nove round (finiti comunque in piedi) nei quali subì la mostruosità di 312 pugni. Al gong finale una grande nebbia scese su di lui, che si risvegliò all’ospedale St. Luke’s Roosevelt dopo un lungo coma indotto dall’équipe medica per drenargli tutto il sangue che aveva invaso il cervello. Particolare raggelante: all’ospedale Mago ci arrivò in taxi, perché la commissione medica della riunione aveva dato libertà all’ambulanza presente per legge sino all’ultimo match: un caso di cecità collettiva senza precedenti.
Bakanay aveva sposato Mago undici anni prima perché le famiglie si erano accordate così, ma nel racconto di Barry c’è tutto l’amore di cui una donna è capace. La cura che ha del marito infermo è straordinaria. Abdusalamov è conciato molto male: può mangiare solo liquidi, muove a stento le dita (e il pezzo commuove quando descrive il lento, impercettibile saluto al giornalista che entra in camera), e ogni tre ore la moglie è costretta a spostarlo – mole non da poco – per scongiurare le piaghe da decubito. Le sono costate fin qui due milioni di dollari, che ovviamente la coppia non ha (la borsa del match fatale era di 40 mila dollari): ma si confida sulla causa intentata ai medici e all’arbitro di quella sera. Barry si congeda quando entrano nella camera le tre figlie di Mago e Baka, 9, 6 e 2 anni. Ciascuna a suo modo racconta al padre la sua giornata, e nella fissità dello sguardo lui certamente sorride. Dentro.