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 2015  maggio 19 Martedì calendario

Notizie tratte da: Roberta Cella, Storia dell’italiano,Il Mulino Bologna 2015, pp. 186, 16 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2316065Vedi Biblioteca in scheda: mancaA ogni regione il suo parlare

Notizie tratte da: Roberta Cella, Storia dell’italiano,
Il Mulino Bologna 2015, pp. 186, 16 euro.

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A ogni regione il suo parlare. “In Italia settentrionale si tende ad abbreviare la lunghezza consonantica”, pronunciando detto fatto senza le doppie; “in Sardegna al contrario si pronunciano lunghe tutte le consonanti tra due vocali”. “Per l’espressione di un evento passato i settentrionali tendono ad usare il passato prossimo… e i meridionali il passato remoto”. “Per non andare a scuola in giorni di lezione, a Milano si usa bigiare, a Roma far sega, a Napoli fare filone, a Firenze far forca” (pp. 14-15). Se dici babbo a un toscano lo stai chiamando papà, ma a un siciliano gli hai dato dello sciocco. Spigola e branzino sono lo stesso pesce, a seconda che a pescarlo si sia sull’Adriatico o sul Tirreno. Ma se lo si pesca in Toscana, si chiama ragno. A proposito di pésca, quella con la è chiusa, pare che solo romani e toscani la distinguano dalla pèsca, il frutto con la è aperta. La giacca s’appende alla gruccia in Toscana, ma alla stampella più a sud. A Milano usano l’ometto.

“Il primo testo sicuramente scritto in una varietà italiana è una breve formula di giuramento… rogata a Capua nel marzo 960” (p. 21). Noto come il Placito capuano o cassinese, recitava così: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti benedicti”. Tutto nacque dal fatto che il monastero di San Benedetto di Montecassino e un tal Rodelgrimo si contendevano la proprietà di alcune terre e i loro confini (kelle fini que ki contene). Secondo principio di usucapione – chi detiene un bene per trent’anni senza pagamento di corrispettivo ne acquista la piena proprietà – i benedettini chiamarono a deporre in proprio favore tre fattori, che con formula già scritta dal giudice Arechisi ripeterono quanto sopra. La sentenza per intero scritta in latino riportava solo la frase del giuramento in volgare. Ma “perché il notaio Adenolfo, che roga l’atto e quindi sa scrivere in latino, sentì il bisogno di riportare in volgare la formula del giuramento?” (p. 22) Non si trattò dunque d’ignoranza, ma di vera e propria strategia culturale: “l’ordine benedettino era molto attento ai rapporti con i laici (cioè con la popolazione non ecclesiastica né appartenente agli ordini regolari) e quindi propenso a dar loro voce, anche solo simbolicamente, per esempio adottando la loro lingua (il volgare, subordinato al latino della Chiesa) riconoscendone la piena legittimità in un atto giudiziario” (p. 22).

L’uso del volgare risale al fiorente comune di Pisa, che nei secoli XI e XIII “basava la propria ricchezza sul commercio marittimo… la borghesia cittadina aveva quindi bisogno di strumenti per gestire gli affari e mantenerne memoria, esattamente come accade a una qualsiasi impresa commerciale” (p. 24). Si comincia a scrivere – e a scrivere in volgare – per vile ragion di soldi. “Il primo testo toscano interamente in volgare ad oggi noto è il Conto navale pisano” (p. 25) o Carta navale di Philadelphia dalla città ove è conservato. Risale al secolo XII ed è un elenco di spese sostenute per armare una nave.

Scriver lettere, nel Medioevo, non era cosa da poco. A parte la conoscenza del latino che richiedeva l’intermediazione dello scrivano, anche per i mercanti che usavano il volgare c’erano regole ferree da rispettare. Le lettere “si aprono sempre col nome del destinatario, seguito da quello del mittente e dai saluti”, nel mezzo esposte con chiarezza le questioni commerciali, “la data sta in fondo, subito dopo la frase di congedo, in genere formulata come augurio” (p. 26).

Dal commercio all’arte, in Toscana, il passo fu breve. Resi autonomi dalla padronanza della lingua, notai e mercanti si dedicarono con fervore a copiare testi altrui o a tradurre romanzi francesi. “A partire dalla seconda metà del Trecento svilupparono un genere memorialistico originale, quello delle ricordanze: nei cosiddetti libri di famiglia, succedendosi di padre in figlio, annotarono promiscuamente affari patrimoniali, notizie di nascite e morti, avvenimenti cittadini, e tutto ciò che ritenevano utile a consolidare la coscienza della propria identità famigliare” (pp. 30-31).

“Come lo scrivere in volgare non è operazione banale né scontata, allo stesso modo non lo è decidere di scrivere su di un supporto durevole: la messa in libro di per sé implica la consapevolezza della rilevanza (letteraria o politica o culturale) di ciò che si sta compiando…” (p. 31). La lirica della cosiddetta scuola siciliana fu la prima a essere raccolta in manoscritti. Si trattava di scritti di poesia in “siciliano illustre”, ovvero un siciliano nobilitato dal latino e dal provenzale. Ma a noi ne è giunta, già dal Duecento, soltanto la versione toscanizzata, voluta dall’egemonia politica e culturale dell’imperatore Federico II.
Eppure Alessandro Manzoni, ne Il cinque maggio, farà rimare lui con nui (noi), alla ricerca di una rima perfetta del tutto estranea alla lingua nazionale contemporanea, ma “legittimata da quell’antica tradizione poetica” (p. 32).

“Con Dante e poi via via nel corso del Trecento la lingua letteraria assumerà altri caratteri. Diminuiranno le parole formate con i suffissi –anza, -enza, -aggio… e diminuiranno sia i sicilianismi sia i prestiti dal francese e dal provenzale” (p. 35). Paradossalmente, l’epoca di Dante, Petrarca e Boccaccio, fu epoca di sottrazione linguistica, alla ricerca di una purezza italica.

Di più: il volgare diventa missione evagelica. Come scrive Dante nel Convivio: il volgare “sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato [ovvero il latino] tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce” (p. 36)
Il dantesco De vulgari eloquentia diventa trattato politico: la morte di Federico II priva il volgare illustre del suo regno naturale (la corte fiorentina), ma è “alle membra disperse di quella curia”, ossia ai poeti, che Dante si rivolge nel portare avanti la battaglia della divulgazione di una lingua comune alle genti. Incredibile a dirsi, ma per assistere alla fortuna letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio, bisognerà aspettare la metà del XV secolo, con l’arrivo di Lorenzo de’ Medici.

Smarrita la legittimazione politica della corte fiorentina, nel Trecento e per tutto il secolo successivo si assiste a un ritorno del latino, con il movimento umanistico che richiama alla classicità. “Al volgare non restò che la cosiddetta produzione di consumo: i cantari, le poesie d’occasione e la rimeria spicciolata, gli ultimi romanzi della tradizione cavalleresca, le novelle e le facezie” (p. 44). “Fu l’attività delle cancellerie a mantenere vitale l’uso del volgare anche negli ambiti formali, dopo che gli umanisti lo avevano bandito dalla scienza e dalla letteratura impegnata” (p. 45).

A Lorenzo de’ Medici si deve la vera e propria “industria” del volgare toscano. Facendo pressione sulle tipografie, impose la ripubblicazione di quasi tutte le opere passate secondo gli stilemi e il vocabolario dantesco. In quella che può esser considerata la prima opera d’indottrinamento commerciale, furono gli editori e gli autori stessi a non trovare più conveniente la pubblicazione di opere che non rispettassero il canone mediceo. “Appropriarsi culturalmente di Dante e della sua lingua – per esempio pubblicandone l’edizione più diffusa e apprezzata – significava poter vantare una supremazia culturale sugli altri Stati della Penisola; non si trattava quindi di una questione né neutra né priva di risvolti politici” (p. 50).

Tra gli esperimenti linguistici non allineati, e in parte politicamente avversi perché di origine lombarda, ha una funzione soprattutto parodica il genere macaronico. Incentrata su temi bassi e quotidiani (sesso, cibo, sporcizia), elevati però a stile formalmente elevato, la lingua macaronèe, in esametri epici (quelli dell’Eneide per intenderci), trae il proprio nome dal capostipite del genere: la Macaronea “storia epica degli gnocchi”, scritta nel 1484-1490 da Tifi Odasi, pseudonimo del padovano Michele di Bartolomeo degli Odasi. “L’artificiosità della lingua è ottenuta inserendo lessico settentrionale (veneto in particolare) nel sistema sintattico e grammaticale latino” (p. 54).

Ma perché cercare a tutti i costi una lingua comune? Perché combattere battaglie politiche e ideologiche in nome del primato di un dialetto piuttosto che di un altro? È la vita civile a imporre le regole della nascente lingua comune: l’amministrazione, la politica, la produzione di beni, i commerci, la vita intellettuale in genere hanno bisogno di pensare – e quindi di esprimersi – in grande. “L’estensione territoriale degli stati peninsulari era troppo modesta se paragonata a quella delle altre nazioni europee: la produzione manifatturiera aveva bisogno di mercati più vasti, che la scoperta del Nuovo Mondo aveva ultieriormente ampliato, le persone circolavano con maggior facilità, le necessità amministrative, politiche e diplomatiche si moltiplicavano e si estendevano al di là della dimensione regionale o poco più che caratterizzava gli stati italiani” (p. 62).

Antonio Gramsci: “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi” (p. 64).

La definitiva affermazione del toscano (il fiorentino trecentesco) come lingua volgare comune si ha nel 1525 con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. “È ancora grazie a Bembo se oggi gli italiani possono leggere con facilità i testi medievali: tutti gli altri europei hanno bisogno di traduzioni in lingua moderna per apprezzare la propria letteratura antica, mentre noi, con un po’ di istruzione e di buona volontà, possiamo leggere Dante e Petrarca senza mediazioni” (p. 69). E sempre dal Bembo e dal suo volgare, che vede la luce l’Orlando furioso, che nella sua terza edizione (1832), “mostra chiaramente la volontà di ottenere uno stile e una lingua a metà strada tra il Petrarca lirico e il Boccaccio prosastico” (p. 70).

Sul finire del Cinquecento è guerra dichiarata tra i classicisti di scuola bembiana, che però s’ispirano più al Petrarca che a Dante, e i dantisti della corte di Cosimo I de’ Medici. All’origine del contendere, oltre alle rispettive simpatie autoriali, se si debba o meno cristallizzare la lingua volgare in un toscano trecentesco ormai solo scritto, ma non parlato; o se invece non si debba ricorrere anche all’uso quotidiano e comune del toscano parlato. Dalle braci di questa disputa nasce il Vocabolario degli Accademici della Crusca, avviato intorno al 1591 e mai concluso.

A margine dell’Accademia, è tutto un fiorire di scritti dialettali, parodici o semicolti. In un ex-voto napoletano del 1596, leggiamo: “Sipione De Martino ave uno figlio Tiberio che lavorava a lo Spirito Santo per fabricatore dui altri voltavano lo manganiello con lo barile… dove dette in testa di detto Tiberio rottela la testa a doi bolita in terra io feci voto al la gloriosa vergene Madonna di l’arco chi mi lo sanasse…” (pp. 80-81). Punteggiatura a parte, in sostanza, Scipione figlio di Martino aveva a sua volta un figlio di nome Tiberio, che faceva il manovale alla Basilica del Santo Spirito a Napoli. Tiberio lavorava insieme ad altri due che giravano l’argano con il barile, il quale barile cadendo prende in testa Tiberio, che cade e sbatte altre due volte la testa a terra. A quel punto Scipione (che è la voce narrante) fa voto alla Vergine Maria dell’Arco (il cui santuario è nei pressi di Napoli) affinché lo guarisca… L’ex-voto termina con la data dell’avvenuto miracolo: il 12 febbraio 1596.

Mentre a Firenze sul finire del Cinquecento si disputava di classicismo o modernità linguistica, nella Roma papalina di fine Seicento si assiste alla battaglia tra la letteratura barocca – che trova in Emanuele Tesauro con il suo trattato sul Canocchiale aristotelico e in Giovan Battista Marino i suoi più illustri fautori – e l’Arcadia, movimento di rinnovamento del classicismo e di razionalizzazione della poesia. Pura discettazione da salotto stanco, che ben poca parte avrà sulla tradizione successiva. Da metà Seicento, anche Milano rivendicherà la sua lingua, sebbene dialettale, con una vasta produzione teatrale, al centro della cui scena non può mancare un personaggio di nome Meneghino (diminutivo di Domenico), servo onesto, operoso e leale, che nell’Ottocento diventerà simbolo della milanesità.

Galileo Galilei è stato il primo scienziato a scegliere di scrivere le proprie opere scientifiche non in latino, come da prassi del tempo, ma in italiano. Benché accademico della Crusca dal 1605, non si preoccupò poi molto dell’eleganza quanto della sostanza. Quando diede alle stampe il suo Il Saggiatore (1623) e più tardi Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), si applicò in un’opera di corrispondenza linguistica dei termini scientifici, dal latino all’italiano, di valore inestimabile; condotta non creando parole composte dal latino o dal greco, bensì cercando termini di uso comune e dunque più facilmente divulgabili. Praticamente la divulgazione scientifica nasce con Galileo e prosegue, nel Settecento, con Alessandro Volta. Nel 1737, con Il newtonianismo per le dame ovvero dialoghi sopra la luce, i colori e l’attrazione, del veneziano Francesco Algarotti, diventa addirittura lettura da salotto, adatta all’intrattenimento delle signore.

Il secolo dei Lumi vedrà il fiorire di vocabolari delle cosiddette lingue speciali: in italiano, infatti, si comincia a scrivere di fisica, di economia, di scienze applicate. A Napoli (1754) e Milano (1769) si inaugurano i primi corsi universitari di economia in lingua italiana: la parola industria – termine generico per qualsiasi attività, da cui industrioso – diventa sinonimo di produzione di beni. Da cambio e cambiare, nascono cambiale e cambiavalute. La lingua del commercio e dell’economia si contraddistingue da subito come lingua “globale” che adotta dunque molti europeismi: parole che in forma simile e analogo significato si trovano in tutte le lingue europee (analyse, analisi, analisis…).

La vera svolta arriva a Milano, con “Il Caffè”: periodico che usciva ogni dieci giorni, animato dai fratelli Verri e da Cesare Beccaria, ad uso di “tutte le persone interessate al progresso della società” (p. 100). Gli articoli che trattavano di economia, politica, diritto e scienza diventarono ben presto fautori di un nuovo lessico: “concorrenza, massa circolante di denaro, capitali, venditori di azioni, congresso, pluralità dei voti, regolamenti parlamentari, densità dell’aria, elettricismo, atmosfera elettrica, conduttore…” (p. 100).

Si diffonde l’idea che la lingua è un organismo mutevole, in movimento, condizionata dal progresso, dall’evoluzione, che con la società vive e si trasforma. Il granduca Pietro Leopoldo di Toscana, nel 1783, dispone una nuova riedizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, che pure erano così poco disposti ad accettare le nuove parole della scienza e della politica. Il nuovo vocabolario, non più basato sugli autori del passato, ma sul lessico tecnico e scientifico delle “magnifiche sorti e progressive” resterà incompiuto, nel 1923, alla lettera O.

In Europa, l’italiano trova diffusione grazie al melodramma: “genere teatrale che unisce a una rappresentazione scenica (dramma) il canto e la musica (melo-), alternando momenti recitativi (con il minimo di accompagnamento musicale e il massimo di attenzione alle parole, che servono a far progredire la narrazione) alle arie (con il massimo di musica e il minimo di parole, in genere organizzate in versi regolari e dedicate all’espressione di una stato d’animo)” (p. 103). Maestro indiscusso del genere è stato il romano Pietro Metastasio, che colonizzò con l’italiano la corte sassone di Dresda e quella asburgica di Vienna.

Nell’arco dei secoli, i dialetti italici hanno importato neologismi di provenienza straniera. La cronologia di queste influenze linguistiche corrisponde anche alla geografia del colonialismo e del potere economico mondiale. Nel corso del Cinquecento, furono Spagna e Portogallo a dettare il vocabolario d’importazione: molti i prestiti che riguardano il comportamento sociale (baciamano, complimento, creanza, disinvolto, imbarazzo, premura, puntiglio, regalo…) e le regole del navigare (doppiare, risacca, uragano…), ma anche cibi, piante e animali esotici (cacao, mais, patata, vaniglia, caimano, condor, iguana, lama, zebra…). Intorno alla metà del Seicento, allo spagnolo si sostituì il francese, con parole di provenienza militare (allarme, carabiniere, corazziere, gendarme…) o inerenti l’abbigliamento e la moda (bigiù, cravatta, giarrettiera, ovatta, parrucchiere, stoffa) o, ancora, la gastronomia (bignè, caffettiera, liquore, pasticceria, ragù…) e infine l’arredo e la vita domestica (comò, ammobiliare, parterre, persiana, sofà, tappezzare…). Ma con il secolo dei Lumi, il francese finì per colonizzare anche il contesto linguistico politico, filosofico, economico e scientifico. Un’influenza talmente ampia e profonda da persistere fino al Novecento, quando, nel dopoguerra, fu sostituita dall’inglese.

Nel secolo “Romantico”, si assiste a un ritorno alla stirpe italica, inteso come rifiuto dei neologismi stranieri e nascita e conquista di un’identità linguistica nazionale che affondi le proprie radici nella storia del territorio e dei suoi dialetti. Ne sono fautori personaggi tra loro molto diversi, per opera e per intenti: Vincenzo Monti, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Pietro Giordani. L’Ottocento sarà un fiorire di dizionari: Dizionario dei sinonimi del Tommaseo (1830), Dizionario della lingua italiana di Tommaseo e Bellini (1861-79), fino al Grande dizionario della lingua italiana di metà Novecento.

Ad Alessandro Manzoni (1785-1873) si deve la prima vera formalizzazzione romanzata (quindi per prosa letteraria) della lingua italiana moderna: “una commistione di arcaicità linguistica e di colloquialismo, variamente venato di elementi regionali” (p. 121) tipici della prima edizione de I Promessi sposi (la cosiddetta Ventisettana, dalla data di pubblicazione 1827), fino alla “lingua viva e omogenea della Quarantana” (ibid.), ovvero l’edizione del 1840. Manzoni sostiene con forza che “una lingua è un tutto o non è”. Deve fornire tutti gli elementi necessari necessari a tutte le circostanze comunicative. Deve essere fatta di parole necessarie. Parole della vita di tutti i giorni. In una lettera del 1947 a Giacinto Carena, scienziato piemontese autore del Vocabolario domestico (1846), Manzoni rimprovera all’autore di aver indicato nel suo vocabolario ad uso di vita quotidiana troppe parole per indicare la stessa cosa, “legittimando così il principio secondo il quale si possa scegliere volta per volta da quale parte d’Italia prendere il nome per le diverse cose” (p. 121). Per Manzoni la scrittura, la lingua italiana non è mai una questione di scelta, ma di necessità: “Che questa facoltà di scegliere è appunto la nostra miseria…”

Vent’anni dopo Manzoni farà di questo suo credo artistico un’idea politica, con lo scritto Dell’unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla, redatto come relazione ufficiale (1868) per il Ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio. Il Ministro aveva appositamente nominato una commissione di esperti, presieduta dal Manzoni, per attuare un programma educativo per diffondere “la buona lingua e la buona pronunzia” presso tutti gli strati sociali. Non vi era dubbio che tale lingua dovesse derivare dal fiorentino parlato, ma come renderla “ufficiale” e “condivisa”? Tra i provvedimenti suggeriti dal Manzoni: un dizionario dell’uso vivo del fiorentino, una serie di dizionari dialettali per la traduzione in fiorentino delle parole locali, la preferenza dei maestri di scuola toscani da mandar in giro per l’Italia, borse di studio per permettere agli studenti di passare un’annualità in Toscana. Di tutte, solo il Novo vocabolario della lingua italiana di Giovanni Battista Giorgini (genero del Manzoni) e del Ministro Broglio arrivò a compimento tra il 1870 e il 1897.

Con lo Stato Unitario, la questione della lingua nazionale diventa essenzialmente economica: se si vuole concorrere con gli altri Paesi si deve portare la popolazione a un livello di integrazione e formazione linguistica accettabili. Al momento dell’Unità d’Italia, l’analfabetismo era al 75%, con punte del 90% in Sicilia e Sardegna. Nelle campagne la situazione era più tragica che nelle aree urbane e per le donne l’istruzione era un lusso: in Calabria e Basilicata le donne alfabetizzate erano soltanto il 5%. Nel 1911, si era riusciti a ridurre l’analfabetismo al 40%, ma con un livello di istruzione elementare (due o tre anni di scuola obbligatoria) che era appena sufficiente a leggere, scrivere e far di conto solo in termini molto semplici e rozzi.

Contrariamente alle proposte d’indottrinamento manzoniano, il goriziano Graziadio Isaia Ascoli, studioso di glottologia di orientamento positivista, riteneva che la lingua nazionale non la si potesse studiare o pianificare nelle scuole, come una strategia di guerra. A suo dire, una sana economia, capace di garantire la libera circolazione delle genti e delle idee, avrebbe favorito un naturale processo di “consenso creativo”. Come a dire: “è necessario agire non sulla lingua direttamente, ma sui fattori storico-culturali ed economici” (p. 133). E aveva ragione: se la lingua nazionale (di derivazione fiorentina) è divenuta tale, lo si deve alle migrazioni interne, all’inurbamento delle popolazioni contadine, alla generalizzazione dell’istruzione, alla leva militare obbligatoria e ai mezzi di comunicazione di massa, primi fra tutti i giornali. Pinocchio di Collodi (1883) o Cuore di De Amicis (1886) non sono già più prodotti della letteratura, ma di un lessico familiare di massa, fatto di frasi semplici ed espressioni comuni.

Secondo il XV Censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 2011, l’analfabetismo è una battaglia ormai vinta: con l’1,06% della popolazione analfabeta. Quello che questo dato rassicurante non dice è che degli alfabetizzati, il 20,1% ha solo un’istruzione elementare e il 7,7% è privo di titolo di studio di qualsiasi tipo. Il 70% della popolazione tra i 16 e i 65 anni si colloca comunque a un livello di istruzione più basso di quello considerato necessario “per interagire in modo efficace”.

Nell’attuale cultura digitale, la comunicazione di massa si colloca sul piano del rapporto dialogico tra due persone e della contemporaneità di interazione: si parla del momento e per il momento, producendo conversazioni che, se rilette a distanza di poche ore, non hanno già più alcun significato. È una scrittura senza tradizione e senza residuo. Dalla seconda metà del Novecento in poi, l’epicentro della letteratura si è andato via via separando dalla quotidianità parlata. Ci sono stati dei tentativi di mimesi – Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Italo Calvino – e tentativi di distanziamento, come Carlo Emilio Gadda. Ma quale sarà l’esito dell’attuale lingua italiana?

Graziadio Isaia Ascoli scriveva: “L’Italia par che sdegni la mediocrità, e dica alla Storia: A me si conviene o l’opera eccelsa o l’oziare”.

(Francesca Garofolo)