Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 17/5/2015, 17 maggio 2015
PALAZZI DI VETRO E PAURA, LA CITTÀ PROVA A RIPARTIRE MA INTORNO IL PAESE È IN GUERRA. «ORA SIAMO SOLI» KABUL
KABUL Tratti di muro annerito. Cocci di vetro sul selciato. Due finestre sfondate. «Da quella più piccola di un gabinetto abbiamo fatto fuggire tanti degli stranieri sopravvissuti all’attacco dei talebani», dice uno degli ufficiali dei servizi di sicurezza messo di guardia alla palazzina a due piani del Park Palace.
Se non fosse per il posto di blocco militare sulla Cololaposhta, la via principale del quartiere dove si affaccia il lodge, sarebbe difficile individuare il luogo del massacro di giovedì. I corpi dei 14 assassinati, tra cui quelli dell’italiano Alessandro Abati con la fidanzata kazaka, sono stati trasportati nell’obitorio dell’ospedale militare afghano alla periferia. «Ci vorrà ancora qualche giorno per espletare le pratiche burocratiche e riportarlo in Italia, sono in contatto con la famiglia. Abbiamo recuperato anche il suo passaporto con gli effetti personali», spiega l’ambasciatore Luciano Pezzotti.
Chi ha visto l’interno del lodge dopo l’eccidio testimonia che le stanze appaiono intatte, salvo un salone al primo piano, dove le finestre sul giardino sono tutte rotte. Pare che gran parte delle vittime sia stata colpita da sventagliate di proiettili al petto. I loro volti sono quasi tutti ben riconoscibili.
Dal fornaio che si affaccia sulla strada laterale, dove è situata l’unica porta di accesso al lodge, i proprietari si dicono certi che il commando assassino abbia cominciato a sparare all’interno della palazzina.
«Volevano colpire gli stranieri, noi afghani che stiamo loro accanto dobbiamo fare attenzione. Ma senza panico! Non siamo noi gli obiettivi», dicono nervosi.
E’ una Kabul fatalista, come arresa all’inevitabilità della violenza e del peggioramento della crisi economica, quella che abbiamo incontrato atterrando la mattina di venerdì, con i titoli dei media locali concentrati sull’«allarme sicurezza».
«Il Paese è in guerra», notano gli operatori dell’organizzazione medica italiana Emergency snocciolando i dati raccolti nei due ospedali e 44 centri di pronto soccorso diffusi sul territorio. Nel 2010 i ricoverati per ferite da guerra furono 2.333, saliti a 4.832 l’anno scorso. Da gennaio ad aprile 2015 sono stati 1.663, un terzo in più rispetto al 2014.
«Si combatte apertamene in 21 province su 34, le aree coinvolte continuano ad allargarsi. Il conflitto si è fatto talmente grave e diffuso che già dalla fine del 2010 noi curiamo unicamente le sue vittime, quasi tutte colpite da proiettili o investite da esplosioni», sostiene Luca Radaelli, coordinatore dall’ospedale di Kabul.
Sono ormai oltre tre anni che l’entusiasmo ottimista e febbrile decollato dopo l’invasione a guida americana del 2001 si è arenato tra paure e incertezze. Per cercare qualche nota positiva occorre fare uno sforzo di memoria, ricordare i cumuli di rovine, la povertà diffusa nella Kabul talebana solo quindici anni fa.
L’attuale pulizia delle strade, i grandi palazzi di vetro, i nuovi quartieri residenziali, la ricchezza della merce nei negozi, lo stesso aeroporto completamente rifatto e aperto solo da un anno, allora sarebbero apparsi chimere, pure utopie.
Eppure, tutto questo agli afghani non basta più. L’incubo della ripresa delle offensive talebane, assieme alle segnalazioni sul crescere della presenza di Isis, fanno da padroni.
«Non possiamo consolarci pensando che prima, tanti anni fa, era peggio. Il fatto è che oggi siamo più poveri di ieri e il futuro si presenta come un muro grigio, privo di speranza — racconta l’imprenditore quarantenne Nader Feisal, proprietario di due grandi centri commerciali —. Ho investito oltre 100 milioni di dollari nelle mie attività. Non so come recuperarli. Mio padre seppe destreggiarsi ai tempi della guerra contro i russi, poi del regime comunista di Najibullah, persino con i fanatici talebani. L’invasione del 2001 rappresentò una grande opportunità. Ma adesso è crisi nera. Quattro anni fa incassavo quotidianamente 70 mila euro. Oggi meno di 12 mila. Non posso pagare i creditori. Le strade sono tornate insicure. Io e la mia famiglia rischiamo di venire rapiti a scopo di riscatto. È avvenuto a tanti amici. Chi non paga muore».
Tre giovani incontrati nel parco alberato di Shaharenahu, uno dei quartieri del centro, descrivono una capitale sempre più accerchiata dall’avanzata talebana, che dalle periferie sud-orientali sta raggiungendo i gangli vitali del Paese.
Attacchi sono avvenuti nelle province di Kunduz, Ghazni, Logar e in tutto il Badakhshan, nel Nord, che sino a poco fa era considerata una delle più sicure.
Vere battaglie campali dall’esito incerto, che evidenziano le debolezze strutturali delle nuove forze di sicurezza nazionali incapaci di fermare la guerriglia senza l’aiuto fondamentale delle truppe Nato, ridotte però al lumicino dai ritiri degli ultimi mesi.
L’ Afghanistan Times segnalava ieri in prima pagina le proteste della popolazione per le continue, sanguinose imboscate sulla provinciale tra Kabul e Jalalabad. Un luogo che per il Corriere della Sera riporta alla dolorosa memoria dell’assassinio dell’inviata Maria Grazia Cutuli assieme a tre giornalisti stranieri nel novembre 2001.
«Siamo stati lasciati soli dalla Nato. E non siamo in grado di camminare con le nostre gambe», ammette il 23enne Hamed Nezami studente alla facoltà di Economia.
Mohammad Fayaz, 22 anni, dal 2011 viaggia tra le zone rurali per distribuire piccole biblioteche scolastiche. Ma a gennaio ha deciso di restare a casa. Spiega: «Ormai i posti di blocco talebani sono giunti alla periferia della capitale. Potrei venire ucciso in ogni momento. Una volta incontravo tanti occidentali. Ora stanno disertando persino Kabul». A conferma delle sue parole è sufficiente guardarsi attorno.
Questa che sino a poco fa era una città densamente popolata da funzionari Onu, diplomatici stranieri, operatori delle organizzazioni non governative internazionali, oggi è tornata provinciale e introversa.
Gli stranieri non si fanno vedere. Le loro auto sfrecciano veloci, con le tendine abbassate. E dopo le sette di sera tutti a casa. Chiusi locali storici come il ristorante «Boccaccio», il «Gandamak Lodge», il bar «Bistrot», il caffè «L’Atmosphere».
Porte serrate, nostalgie, timori, insicurezza: Kabul cerca, ma non trova, un nuovo Rinascimento.