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 2015  maggio 17 Domenica calendario

IL REGIME MOSTRA SEGNI DI CEDIMENTO ASSAD: «CERTE BATTAGLIE SI PERDONO»

GERUSALEMME Dopo quattro anni e oltre 220 mila morti, Bashar Assad riesce a concedere: «Questa non è una battaglia, è una guerra». Così il presidente siriano è riapparso in pubblico una decina di giorni fa per riconoscere che «a volte le battaglie si vincono, a volte si perdono, si avanza, ci si ritira».
Il comizio a Damasco, circondato dai suoi sostenitori, non vuole dare ragione – con molto ritardo – a Ehud Barak che da ministro della Difesa israeliano l’11 dicembre del 2011 aveva dato al regime pochi mesi di sopravvivenza. Da allora Barak è andato in pensione, investe in nuove tecnologie, di mesi ne sono passati più di quaranta e Assad è ancora al potere.
Eppure il regime sembra agli analisti più fragile e le parole del leader siriano in parte lo ammettono. Perché ha perso una città importante come Jisr al-Shughour, capitale della provincia di Idlib, perché potrebbe perdere Palmira e abbandonare le sue meraviglie archeologiche alla furia dello Stato Islamico. Per i generali di Assad non è solo patrimonio dell’Unesco da proteggere: è un’altra porta a est da dove i fondamentalisti potrebbero premere verso Damasco.
«Il futuro di Bashar – scrive Aron Lund, studioso del Carnegie Endowment for International Peace – è incerto com’è inevitabile dopo i quattro anni di guerra civile. La Siria è uno Stato in decomposizione, nessuno sa più definire che cosa rappresenti la vittoria finale». E prevede: «Il governo può perdere territori e disintegrarsi anche rapidamente, i suoi elementi costitutivi non sono destinati a scomparire. Anche se il presidente morisse o si ritirasse dalla capitale, il suo esercito continuerebbe a esistere sotto forma di milizie: il caos e il conflitto andrebbero avanti».
Hezbollah e le truppe regolari concentrano gli attacchi nella zona delle montagne di Qalamoun al confine con il Libano. Riconquistano posizioni, respingono i ribelli, creano un corridoio sicuro tra Damasco e la costa sul Mediterraneo, un’area protetta verso il porto di Latakia, dove vivono – e si sono rifugiati – gli alauiti, la minoranza che con il clan degli Assad ha controllato il Paese per oltre quarant’anni.
Sono queste le province che il regime non può permettersi di perdere: lo sanno i consiglieri militari iraniani, lo sanno i comandanti dell’organizzazione sciita libanese che sta garantendo la sopravvivenza del dittatore. Lo conferma James Clapper, direttore della National Intelligence americana, nel suo rapporto annuale – letto dalla Casa Bianca - sulle minacce globali: «Il governo ha consolidato il controllo nelle regioni occidentali – scrive alla fine di febbraio – e le considera la chiave per resistere. Sembra non preoccuparsi per ora di aver perso le campagne e il deserto verso l’Iraq».
Le agenzie di spionaggio americane concordano: se il regime riesce a riconquistare tutta Aleppo, diventerebbe improbabile la sua caduta definitiva in tempi brevi.
Le fratture non sono solo territoriali. Anche il circolo ristretto che ha guidato la repressione della rivolta fin dalle prime manifestazioni pacifiche nel marzo del 2011 mostra segni di cedimento. Alla fine di aprile è morto in ospedale Rustom Ghazaleh, potente capo del potentissimo dipartimento politico dei servizi segreti. Le voci sono più numerose delle poche conferme: sarebbe stato cacciato dall’incarico, l’avrebbero ucciso con dell’aria lasciata filtrare nella flebo che aveva infilata nel braccio. Di sicuro qualche mese prima era stato picchiato dalle guardie di Rafik Shehadeh, altro boss degli apparati. Ghazaleh sarebbe stato malmenato ed eliminato perché si opponeva – come il generale Ali Mamlouk, il capo della Sicurezza Nazionale che sarebbe finito agli arresti domiciliari – alla strategia di lasciare la gestione del conflitto agli Hezbollah e agli iraniani.
L’arroganza e la supremazia degli alleati stranieri avrebbe sfiduciato anche gli alauiti, che rappresentano il 12 per cento della popolazione (la maggioranza nel Paese e tra i ribelli è sunnita). Per la prima volta ci sarebbero state manifestazioni di protesta a Latakia, i genitori avrebbero cercato di fermare il reclutamento forzato dei ragazzi in età per il militare. Assad non può fare a meno di loro che però si sentono abbandonati da lui.