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 2015  maggio 17 Domenica calendario

I CLIENTI DI ABU SAYYAF, MINISTRO DEL PETROLIO FEROCE CON GLI OSTAGGI

WASHINGTON Il Pentagono è certo di aver eliminato l’uomo del petrolio, Abu Sayyaf. Il dirigente dell’Isis coinvolto nella vendita del greggio ricavato dai pozzi conquistati in Siria. Un personaggio discreto. Molto discreto. Al punto che a diversi esperti è parso misterioso, persino insignificante o sconosciuto. E comunque sostituibile. Giudizio opposto quello dell’intelligence Usa che lo ha elevato a rango di «ministro» dell’oro nero.
Incerte le origini. La versione ufficiale sostiene che fosse un tunisino, trasferitosi in Iraq all’epoca dell’invasione americana nel 2003. La tv Al Arabiya fornisce un altro identikit: il suo nome era Nabil al Juburi, originario di Mosul e poi finito nell’ormai celebre prigione di Camp Bucca, dalla quale è passata gran parte della gerarchia Isis, compreso al Baghdadi. Successivamente ha «lavorato» con un ex ufficiale baathista unitosi all’Isis, Abu Abdul Rahman al Bilali, ucciso nel 2014. Quello che pare sicuro è l’ultimo incarico: Abu Sayyaf avrebbe ricoperto un ruolo importante nel dipartimento economico dello Stato Islamico, usando come «ufficio» l’area di al Omar, vicino a Deir ez-Zour, nel nord est della Siria. Qui, attorno agli impianti di estrazione principali, ve ne sono molti altri, più piccoli, conquistati dall’Isis in modo paziente. Un bottino fatto fruttare. La scorsa estate sono uscite stime allarmate. L’Isis — è stato sostenuto — era in grado di ricavare anche fino a due milioni di dollari al mese con la vendita del greggio. Quanto alla produzione si parlava di 30 mila barili al giorno, piazzati al prezzo scontato di 25 dollari l’uno. Cifre ritenute non sempre accurate. Alla fine del 2014 gli analisti hanno rifatto i calcoli valutando i guadagni in circa 300-400 mila dollari mensili. Un ridimensionamento legato al calo del prezzo del petrolio, alla distruzione nei raid alleati di oltre 150 siti, a possibili difficoltà tecniche nello sfruttamento.
Un’attività intensa dunque, gestita — sempre secondo gli Usa — da Abu Sayyaf e da un gruppo di collaboratori legati a clan di contrabbandieri locali. Figure coinvolte nei traffici ben prima della comparsa del Califfo. Un mercato condotto in modo spregiudicato, vendendo il prodotto a chiunque fosse pronto a pagare. E tra i clienti anche il nemico, il regime di Assad. Transazioni favorite dagli intermediari, come il ben noto George Haswani, inserito nella lista delle sanzioni europee nel marzo del 2015.
Nella ricostruzione ufficiale si è associato il nome di Abu Sayyaf anche alle operazioni militari dell’Isis così come al dramma degli ostaggi occidentali. In particolare alla storia di Kayla Mueller, l’americana deceduta nelle mani dei terroristi. Per la Cbs il jihadista e la moglie, Umm Sayyaf, hanno delle responsabilità nelle sofferenze della ragazza: forse — ma è pura speculazione — la donna statunitense potrebbe essere stata data in sposa all’estremista. Aspetti che saranno indagati da un team dell’Fbi insieme all’ipotesi che Abu Sayyaf fosse molto vicino a Mohammed al Adnani, portavoce ufficiale dello Stato Islamico. Un collage di tasselli, non tutti chiari, per comporre un quadro più ampio dove possono essere fissati alcuni punti. Il primo è una sfida ad Al Baghdadi che ha più volte irriso la Casa Bianca dicendo che «non aveva il coraggio di rischiare uomini sul terreno». Ora Obama li ha mandati. Il secondo è dimostrare che le unità speciali — in questo caso la Delta Force — sono in grado di agire in profondità nel territorio ostile. Il terzo è la capacità dell’intelligence nel sostenere un’operazione comunque rischiosa fornendo il supporto necessario. Il quarto è il tentativo di prendere l’iniziativa per mantenere comunque una pressione sul nemico, cercando di alimentare la sua paranoia verso spie, informatori, traditori.
Colpendo Abu Sayyaf — e magari accrescendone l’importanza — il Pentagono ha senza dubbio cercato di bilanciare le notizie negative giunte da altre zone di guerra. Da Ramadi, in Iraq, dove l’Isis è vicino al controllo totale, e Palmira, in Siria, minacciata dai combattenti jihadisti. C’è — come sempre — un elemento politico giocato dalla Casa Bianca, che però non toglie merito all’aspetto puramente militare.