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 2015  maggio 17 Domenica calendario

A MÉRIDA DOVE LA VITA È UNA PARTITA A SCACCHI

“La città ha una pianta a scacchiera”, informava la guida. Sarà per questo che le ho notate, le scacchiere: sui tavoli di pietra bianca nei giardini pubblici, su quelli di legno nei caffè dalle pareti granata e turchesi, sulle panchine smeraldo. Venivo da Campeche, muovendo a nord est come un alfiere: una lunga diagonale. Nella città ho assunto passettini da torre guardinga: A2-A3. Troppi colori e troppa festa, troppa rumba & bumba: il Messico può stordire chiunque, perfino Eisenstein, che si credeva corazzato, dieci giorni a Guanajuato ed era un altro.
«Giochi?».
Non posso, mi aspettano a Cancún prima dell’alba. Mentendo: avevo due tramonti d’acconto. La verità è che ho smesso, una vita fa. Gli scacchi sono per investitori di lungo periodo, equilibristi dell’ipotesi, podisti. A un certo punto non sono più stato capace di mettere in fila i “se”, “allora dopo”, “ma a quel punto”. Di immaginare che cosa sarebbe seguito. Di sacrificare la regina. Piuttosto: day trading, piano b e cento metri. Da solo.
«Una partita soltanto».
Chi è che pittura le case in questo posto? Perché la musica non smette mai? Come può sembrare un luogo di mare se la costa è a più di quaranta chilometri? Se gioco e perdo, poi vorrò la rivincita, si farà tardi, comincerò a bere, perderò ancora, me ne lascerà vincere una con l’apertura del barbiere e capirò che è una trappola, se, allora, ma a quel punto....
Credevo gli scacchi fossero per climi freddi, che cosa c’entra il Messico?
«Non conosci Carlos Torre Repetto?».
La domanda ha una sola possibile risposta: accettare la sfida. Giocare per sapere. Più in là, oltre la piazza, c’è una sala, lì ogni anno a dicembre si gioca un torneo in memoria di Carlos (Merida 1904-1978), l’uomo di cui dissero: «Giocava con tre torri, una era lui».
Cerco di ingannare l’avversario, gli racconto che la città dove son nato ne ha due, di torri.
«New York?».
Silenzio.
«Ahhhhh, già...».
Mi sta ingannando e, mentre io esito, ha aperto il varco a un alfiere.
Torre, racconta, imparò qui, dal padre che giocava per corrispondenza. Poi si trasferì con la famiglia a New Orleans e lì incontrò il suo vero maestro. Lo batté in fretta, ma s’inventò una partita in cui quello vinceva e la pubblicò. Capirono più tardi che non era possibile, era un omaggio, una dedica. Inventò, anche, l’”attacco Torre”, la “difesa messicana”, il “vortice”.
Era così bravo?
«Il più bravo».
Mentre mi costringe ad arrocchi e fughe, il mio avversario ne mette in fila tappe e trionfi: Baden Baden, Marienbad, l’Europa, «per lui una partita a scacchi non era una guerra, tutte quelle sciocchezze che dicono i russi e gli americani, era invece una forma d’arte, non contava il risultato, ma la musica, perché c’è una musica, sotto, come un’onda, che si solleva e poi si ritira», Miami, Chicago, l’America.
Non aggiunge altro. Abbassa lo sguardo. Era in vantaggio, poi si è quietato, attende per il gran finale. New York: Torre aveva ventidue anni e poteva battere chiunque. E dopo?
Niente.
Manhattan è il tentativo di una scacchiera: le avenues e le streets creano quadrati sulla mappa, ma tutto si dissolve, sgretolato dalla velocità. Salì su un autobus che percorreva la quinta strada, cominciò a spogliarsi, non si presentò al torneo. Lo ricoverarono, lo rispedirono in Messico. Dissero che era malato di mente, che l’aveva stroncato una lettera d’addio imbucata a Mérida dalla donna che doveva sposare, che dormiva due ore per notte, mangiava diciotto gelati al giorno, a un solo gusto: ananas. Sparì.
Abbatto il mio re, come ho sempre sognato di fare.
La storia dovrebbe finire qui: anarchia e sacrosanto diritto a fare i matti, invece di subirli.
Non va così neppure questa volta. L’uomo si alza. Dice: «Vieni, passeggiamo».
La città si prepara per la sera, accende luminarie e soffia negli organetti, vaglielo a dire che è lunedì. Arriviamo davanti a una casa sorprendentemente grigia. Che sia di riposo, va da sé.
Carlos Torre Repetto chiuse qui la sua partita, protetto da un sussidio, gestito da suore. Un anno prima della morte gli diedero il titolo di Gran Maestro: non giocava più da mezzo secolo. Lo penso perduto in fantasie bislacche.
Venne a trovarlo un esperto che voleva scrivere un libro su di lui. Si sedettero in giardino. Quello parlava con cautela, credendo di avere di fronte uno squilibrato, vestito di bianco, che teneva nella tasca della giacca un libro di scienze e sosteneva di averlo preso perché era un affare. Gli chiese del suo passato: ricordava ogni partita, mossa per mossa. Ricordava tutte le partite del mondo. Poteva ricrearle nella sua mente, perfette come fotografie. Non gli chiese perché avesse smesso, era troppo chiaro.
Merida, querida, che la festa cominci e che l’alcol ci annebbi. Quanto può essere devastante immaginare tutto quello che ci aspetta e provare a fare di quest’esistenza un’arte.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 17/5/2015