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 2015  maggio 17 Domenica calendario

IO E SARTRE

Arrivato al terzo numero, il Merlin era una rivista cambiata. Come Trocchi, io e Austryn eravamo fortemente convinti che nella Parigi degli anni Cinquanta non si poteva ignorare la situazione politica, che negli ultimi cinque anni si era evoluta in modo tanto rapido ed estremo. Quell’autunno avevo suggerito a Trocchi che, se eravamo impegnati politicamente (non verso un’idea o un partito, ma semplicemente nel riconoscere la Realpolitik della nostra epoca, come aveva dichiarato esplicitamente l’editoriale del numero due), non dovevamo limitarci agli editoriali ma dovevamo dedicarle una sezione di cronache nella rivista. Potevamo trovare o commissionare articoli di nostra iniziativa, ma anche accordarci con qualche rivista francese compatibile e affine, come per esempio Les Temps Modernes.
Alex non era troppo sicuro che la seconda opzione fosse praticabile. «Cosa vi fa credere che Sartre ci rivolgerebbe anche soltanto la parola?» chiese. «È famoso in tutto il mondo, cavolo. Come facciamo ad arrivare a lui?».
«Abita proprio qui, in rue Bonaparte», dissi, indicando una finestra dall’altra parte della piazza rispetto a dove eravamo seduti. «Scriviamo una lettera, accludiamo una copia di entrambi i numeri e gli spieghiamo la nostra idea. Cosa abbiamo da perdere?».
Stavolta la risposta fu rapida, ma solo in parte positiva. Nel giro di una settimana ricevetti una lettera, su carta intestata di Sartre, non dal grand’uomo in persona ma da qualcuno di nome Jean Cau, che a quanto pareva era il suo segretario. Ci propose un incontro al Flore la settimana dopo.
Volevo farmi accompagnare da Trocchi, ma lui si tirò indietro, preoccupato che la sua scarsa padronanza del francese potesse essere un ostacolo.
«Fai tu il primo passo, Dick», mi suggerì, «e poi andiamo avanti a partire da lì».
Jean Cau si rivelò giovane, forse di cinque anni buoni meno di me, un bell’uomo dal viso aperto e dal sorriso spontaneo, nonostante il fatto che, lavorando tutto il giorno con Sartre, portasse sulle spalle un bel po’ del peso politico del mondo.
«Monsieur Sartre è rimasto colpito dalla vostra rivista», disse mentre bevevamo una birra.
«Noi pensavamo a un accordo reciproco» azzardai, e mentre lo dicevo mi rendevo conto che sarebbe stato più in una sola direzione che reciproco. «Voi potete usare tutto quello che volete della nostra rivista e noi della vostra. Non possiamo pagarvi molto, però possiamo contribuire in qualche modo, anche se simbolico», aggiunsi.
«Allora me lo faccia sapere», mi rispose. «So che Sartre è meno interessato ai soldi che non a diffondere ovunque le idee e i fatti che ritiene importanti ».
Fedele alla parola data, la settimana dopo Jean Cau mi mandò un messaggio per chiedermi se potevo incontrare Sartre. Stavolta la resistenza di Trocchi si sciolse: vedere il Grande Esistenzialista a quattr’occhi era un’occasione troppo ghiotta per rinunciare. Vestiti al meglio dei nostri abiti usati, arrivammo puntuali all’ora prefissata. Jean Cau ci accolse sulla soglia e ci scortò nell’appartamento dal mobilio squisito fino allo studio tappezzato di libri di Sartre. Mi sorprese scoprire che un uomo che collegavo a idee di estrema sinistra avesse un gusto così borghese: mi ero aspettato qualcosa di più spartano. Ma stavo imparando rapidamente che in Francia, un paese decisamente conservatore per tanti aspetti, le idee politiche e lo stile di vita di una persona potevano essere diametralmente opposti. Sartre era seduto alla scrivania e scorreva delle pagine scritte a mano. Quando si alzò per accoglierci restammo entrambi sorpresi dalla sua bassa statura. Aveva un sorriso cordiale e accogliente. Cau ci presentò, e dopo le strette di mano di prammatica Sartre ci fece cenno di sederci davanti alla scrivania. Cau si sedette da una parte. Per noi, abituati all’oscurità di rue du Sabot, l’appartamento di Sartre era di una luminosità accecante.
«Jean mi ha parlato di voi e della vostra richiesta » esordì, fissandoci, lo sapevo, entrambi. Dico “lo sapevo” perché, per quanto avessi sentito dire che Sartre era strabico, una cosa era sentirselo dire, l’altra vederlo di persona: con un occhio guardava dritto davanti a sé, con l’altro di lato. Anche se portava gli occhiali, sembrava solo che aggravassero il problema. Alex, sfoggiando il suo accento scozzese più elegante, si dilungò sul Merlin e sul ruolo che sperava acquisisse nel mondo letterario anglofono. Sartre annuì, ma poi, dimostrandoci di aver guardato approfonditamente i numeri che gli avevamo spedito, disse: «Credo che il pezzo del dottor Ayer sul primo numero sia molto interessante. Naturalmente non sono d’accordo con gran parte di quello che dice, ma è un uomo intelligente e il suo approccio all’esistenzialismo è provocatorio. Immagino che voi inglesi non soccomberete mai al suo fascino».
«Io sono scozzese», lo corresse Trocchi.
Sartre sorrise debolmente. «Avrei dovuto dire “voi anglosassoni”».
«E se pubblicassimo l’articolo di Nyiszli?» proposi. Per come mi ricordavo l’articolo di Ayer, mirava più a seppellire l’esistenzialismo che a lodarlo. Eppure, Sartre era chiaramente interessato a quello che Ayer aveva da dire sulla sua filosofia ed era anche colpito che il Merlin l’avesse pubblicato. «Funzionerebbe, secondo lei?».
«È un pezzo potente», disse Sartre. «Temo che stiamo cominciando solo a sfiorare la superficie di quello che è successo davvero in quei campi. Comunque, idealmente dovreste tradurlo dall’ungherese. Ce l’avete un traduttore?».
Io e Trocchi ci guardammo, perplessi.
«Non proprio» dissi. «E se lo traducessimo dal francese?».
«Forse», rispose Sartre, «ma in quel caso vi metterò in contatto con il nostro traduttore, Monsieur Tibère Kremer. Vive qui a Parigi, quindi potete tradurlo insieme o sottoporre la vostra traduzione per un controllo. Jean», chiese, «abbiamo l’indirizzo di Tibère a portata di mano?».
Cau annuì e andò verso l’archivio a cercarlo.
«Pensa che sia necessario un accordo formale di qualche tipo?» chiesi. «Una specie di scritto tra di noi?».
Sartre scosse il capo. «Secondo me non c’è motivo. Possiamo farlo volta per volta. Ricordate semplicemente di indicare, per qualsiasi cosa scegliete, che è stato pubblicato d’accordo con Les Temps Modernes ».
«E il pagamento?» chiese Trocchi.
«Discutetene con Jean», disse Sartre. «Qualsiasi accordo raggiungiate mi va bene».
Avrei voluto dirgli quanto ammiravo la sua opera, specialmente il teatro, ma chissà perché non riuscii a farlo. Ci aveva trattato come dei pari, ed era meglio lasciare le cose così, decisi. Gli stringemmo la mano e ci congedammo.
Sulla soglia, Jean Cau disse: «Per i soldi, quando Sartre ha detto di discuterne con me significava che pagherete quello che potete».
Al piano di sotto, Trocchi disse: «Ecco un vero gentiluomo. Vorrei tanto che ce ne fossero di più come lui».
«Cosa mi dici della faccenda degli occhi?» gli chiesi mentre tornavamo in fretta verso rue du Sabot per dare la buona notizia agli altri.
«Ah, sì, quello era un test, vero?» disse Trocchi. «Ma sai che alla fine della riunione ormai non ci facevo nemmeno più caso? E tu?».
«No, ma ora capisco per la prima volta un verso che ha scritto, non mi ricordo dove: l’enfer, c’est les autres, che più o meno si traduce con “l’inferno sono gli altri”. Deve rendersi conto molto bene che “gli altri” ogni volta cercano di affrontare il suo strabismo».
Richard Seaver, la Repubblica 17/5/2015

© 2-012 by Jeannette Seaver Introduction copyright © 2-012 by James Salter Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, L-LC, New York and Marco Vigevani Agenzia Letteraria
L’AUTORE RICHARD SEAVER (1926-2009), AMERICANO MA LAUREATO ALLA SORBONA DI PARIGI, TRADUTTORE, CRITICO LETTERARIO, EDITORE, FONDATORE DI ARCADE PUBLISHING, È STATO UNA DELLE FIGURE PIÙ PRESTIGIOSE E INNOVATIVE DELL’EDITORIA INTERNAZIONALE