Harvey Sachs, Domenicale – Il Sole 24 Ore 17/5/2015, 17 maggio 2015
QUEL TELEGRAMMA CHE UNÌ I MAESTRI
Che il diciannovenne Arturo Toscanini fosse presente alla prima rappresentazione assoluta dell’Otello di Giuseppe Verdi nel 1887 è un fatto risaputo ormai da tutti i verdiani e da tutti i toscaniniani del mondo. Già direttore in erba, il giovane maestro voleva tuttavia osservare il Grande Vecchio da vicino durante le prove, per cui si fece scritturare come secondo violoncello nell’orchestra della Scala, sotto la bacchetta di Franco Faccio, molto stimato da Toscanini («opere come Gioconda, Aida, le faceva bene» disse l’ipercritico maestro molti anni più tardi).
Nel 1893 però, Toscanini, impegnato a dirigere una movimentatissima stagione al Politeama Garibaldi di Palermo, non potè assistere alla prima del Falstaff. Ma appena terminati i lavori siciliani, andò a Venezia, dove la stessa compagnia che aveva presentato Falstaff per la prima volta alla Scala ora la portava in tournée, con cantanti famosi – Victor Maurel come protagonista e Antonio Pini-Corsi nei panni di Ford, tra i tanti altri – e con il maestro Edoardo Mascheroni, che Toscanini non stimava affatto: «un dilettante, amico dei ministri, dei deputati, furbo un accidente», disse di lui. Toscanini aveva già studiato la partitura e se n’era subito innamorato, ma fu alquanto sorpreso da certi dettagli dell’esecuzione, come per esempio l’inizio del secondo quadro del primo atto: quando le tre donne si salutano – «Alice», «Meg», «Nannetta» - ecco che Mascheroni si fermò dopo ogni nome, interrompendo così l’allegro flusso del discorso.
Da vecchio Toscanini disse che se a Verdi era piaciuta l’interpretazione di Mascheroni del Falstaff, la sua non gli sarebbe piaciuta. Di alcuni dettagli dell’opera però era riuscito a parlare con lo stesso Verdi. Tanto per citarne uno: a Genova nel 1894 Toscanini ebbe una discussione con Pini-Corsi sull’andamento della frase di Ford, «Quella crudel beltà», nel primo quadro del secondo atto. Il baritono voleva eseguirla molto più rapidamente del tempo indicato nella partitura, e siccome Verdi si trovava a Genova, chiesero direttamente a lui di risolvere la questione. Verdi dette ragione a Toscanini, e quando Pini-Corsi obiettò che la parte l’aveva studiata con lo stesso compositore, questi gli rispose (citiamo una conversazione di Toscanini registrata a sua insaputa nel 1955): «L’ha studiato con me, sì, ma quante volte l’ha cantata dopo?». «Molte volte». «E per Dio!». E a Toscanini Verdi raccontò: «Caro maestro, io ho messo in scena il Don Carlos a Parigi», – si riferiva alla “prima” del 1867 - e «ci ho messo non so quanti mesi, perché là le mises-en-scène vanno a lungo. Bene, andava come volevo io. Vado (a sentirlo) dopo un mese - non c’era un tempo (rimasto)! Ed erano gli stessi artisti. Capirà che dopo degli anni cosa diventa (un’opera)».
Nel marzo del 1899, quando il 32enne Toscanini diresse il Falstaff durante la sua prima stagione a capo della Scala, l’interpretazione fu severamente criticata da Giulio Ricordi: il potentissimo editore non riusciva a dettare legge al giovane maestro, come era abituato a fare con tutti quanti, e cercava di detronizzarlo. Verdi – che all’età di 85 anni non andava più a teatro - aveva sentito lodi a quell’interpretazione da parte di Arrigo Boito, il librettista dell’opera e compositore del popolarissimo Mefistofele, e rimase perplesso quando lesse la stroncatura di Ricordi: «Se Toscanini non è pratico, gli altri lo sono ancora meno», scrisse all’editore. A Toscanini mandò un telegramma – «GRAZIE = GRAZIE = GRAZIE» – che il direttore avrebbe portato con sé come icona sacra per il resto della vita.
Già allora Falstaff era per Toscanini non soltanto l’opera preferita in assoluto ma anche l’opera-modello che indicava un’alternativa sia al verismo italiano che al postwagnerismo internazionale; voleva che l’opera italiana s’indirizzasse verso la concisione e verso l’acutezza nell’osservazione psicologica degli esseri umani. Da qui gli alti e bassi dei suoi rapporti con Leoncavallo, Mascagni, Giordano, Cilea e persino con Puccini; non metteva in dubbio la loro capacità di realizzare ciò che cercavano di fare, bensì proprio le loro destinazioni artistiche. Ancora prima della Prima guerra mondiale Toscanini avrebbe diretto Falstaff in nove città italiane e a Buenos Aires, New York, Filadelfia e Parigi. Lo allestì al piccolo teatro di Busseto nel 1913 per il centenario della nascita di Verdi («Un’opera comica m’ha fatto piangere!» gli esclamò Boito dopo una delle recite) e di nuovo nel 1926 per il 25° anniversario della morte del Maestro. Fu l’unica opera che diresse in ciascuna delle sue otto stagioni (1921-29) a capo dell’Ente autonomo del Teatro alla Scala, e portò quell’allestimento in tournée a Vienna e a Berlino nel ’29; a Vienna il 21enne Herbert von Karajan fu «folgorato» e «assolutamente sbalordito dalla perfezione» dell’interpretazione.
Nel 1934 il governo austriaco invitò Toscanini a dirigere il Fidelio di Beethoven al festival di Salisburgo l’anno successivo; egli accettò, ma a patto di poter dirigere anche il Falstaff. Gli si obiettò che non si facevano opere italiane a Salisburgo, a parte quelle di Mozart, ma il maestro rispose: niente Falstaff, niente Toscanini. Conclusione: quello spettacolo diventò il clou del festival, e Toscanini dovette riproporlo anche nelle due estati successive. L’avrebbe diretto ancora nel 1938 se nel frattempo l’Austria non avesse dato il benvenuto a Hitler. Una delle recite del 1937 fu trasmessa e registrata dalla radio austriaca, e nonostante la primordiale qualità sonora l’incisione rivela un’interpretazione effervescente dal primo accordo all’ultimo, nonché la straordinaria immedesimazione nel ruolo del protagonista da parte di Mariano Stabile, che l’aveva studiato e cantato con Toscanini sin dal 1921. Questa versione è ancora più bella di quella pur eccellentissima (e acusticamente migliore) che il maestro eseguì poi per la radio nel 1950, in forma di concerto, con l’orchestra della Nbc americana. Toscanini avrebbe voluto finire la carriera dirigendo Falstaff alla Piccola Scala nel 1955, ma la decadenza fisica glielo impedì. Quindi l’edizione newyorkese, che aveva diretto in due puntate poco dopo il suo 83° compleanno, costituì il suo addio a un’opera che aveva presentato oltre 150 volte lungo un arco di 56 anni e che considerava la massima espressione dell’opera lirica italiana.
Harvey Sachs, Domenicale – Il Sole 24 Ore 17/5/2015