Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 16/5/2015, 16 maggio 2015
MONICELLI, CENT’ANNI DI NOSTALGIA
C’era stata una Grande guerra, ce n’era stata un’altra e a decine ne sarebbero venute ancora perché la pace è per le anime belle e l’unica senza armistizi, diceva Monicelli, “è quella con se stessi”. Mario il regista avrebbe compiuto oggi cento anni. Raggiungendo l’età superata di slancio dal fu portoghese De Oliveira: “Non vedo l’ora che scompaia perché è più vecchio di me, più bravo di me e ha partecipato anche a più Festival” e forse consolandosi dall’alto della greve dimenticanza di quello più importante al mondo, Cannes, perché poche cose lo irritavano di più di celebrazioni e feste comandate e nella distrazione (in Francia, a differenza di Venezia non aveva mai ricevuto un premio) sostava una coerenza.
“Solo gli stronzi muoiono” aveva detto in contraddizione solo apparente con il tempo che passava, senza escludere di esserlo stato a sua volta e aggiungendo che più che la paura dell’ignoto a dargli “di molto noia” era l’idea di non potersi divertire più. Quando capì che a dettar legge sarebbe stata soltanto la cartella clinica, mandò a fare in culo la dittatura del referto e si lanciò nel vuoto come i parà di Vogliamo i Colonnelli.
I golpisti da operetta fedeli al Beppe Tritoni in basco rosso interpretato da Tognazzi con cui condivideva, pur da convinto democratico che il Fascismo, quello vero, l’aveva visto passare sotto le finestre, l’avversione per le narrazioni ecumeniche, piatte e alla ricerca di un impossibile equilibrio: “Tra poco, camerati, vi verranno affidate le briglie del paese e dico briglie, perché questo paese ha bisogno delle briglie, del morso e della frusta. Basta con l’antistorica uguaglianza: ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore? Madonna di un dio, solo i coglioni sono uguali gli uni agli altri”. Italiani. Monicelli li aveva raccontati meglio di chiunque altro. Senza santini né altarini. Fedifraghi, cialtroni, ignoranti: “Hai parlato meglio di Benedetto in Croce!”. Piccoli e opportunisti, disperati e orgogliosi come il Giovanni Busacca posto di fronte allo sprezzante generale austriaco interpretato da Gérard Herter nel capolavoro monicelliano sul conflitto ‘15-‘18: “Courage? Fegato dicono… Quelli conoscono soltanto fegato alla veneziana con cipolla, e presto mangeremo anche noi quello” con Gassman in canottiera pronto a morire per una battuta infelice: “Senti un po’, visto che parli così, mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Faccia di merda!”.
Ipocriti, anche tra consanguinei, fino a nascondere le personali inclinazioni perché i parenti, tanto più se stretti, sono soprattutto serpenti. Pronti a uno stupore di facciata che solo la cruda verità rende cartapesta, materiale friabile, conversazione liberatoria. Quando Monica Scattini nell’inverno di Sulmona quasi sviene alla notizia dell’amore omo di Alessandro Haber: “Mario, di professione vigilantes” rimproverandogli l’ambiguità celata: “Ma non ti sei mai confidato con tuo fratello, con le tue sorelle, come è successo?” è la risposta a crepare l’idillio del natale: “Cosa vuoi che ti dica? A un certo punto mi sono accorto che mi piaceva il cazzo”.
Della famiglia, dei suoi inferni, delle revanche in sonno e delle brame economiche alla base di ogni rivendicazione taciuta e proprio per questo destinata ad alimentarsi fino a diventare demoniaca, fin da Toh, è morta la nonna, il cinema di Monicelli è pieno. E a turno, uomini e donne si scambiano il testimone di una gara senza vincitori né vinti in cui se lo sguardo di Monicelli è un manifesto di empatica laicità senza giudizio, per i suoi personaggi cambiare d’abito è la regola. E preservarsi o illudersi di farlo, non serve a nulla (su tutti il piccolo borghese Sordi ligio alle regole e trasformato in belva) se non a prolungare l’agonia. Il male di vivere. I magri conti in rosso con l’esistenza. I primi, i maschi, sono spesso pusillanimi, cinici e vigliacchi. Le seconde, le donne, idealiste, ingenue, vendicative fino a scoprire che anche per la vendetta, nei confini patri come all’estero, bisogna essere tagliati (La Vitti di La ragazza con la pistola) o al contrario fortissime come le figure quasi ancestrali di Speriamo che sia femmina o costrette a esserlo mentre tutto intorno crolla.
Come fosse davvero Mario, il Monicelli che per la battuta si sarebbe fatto uccidere: “Mi piace Ozpetek, ma ogni suo film assomiglia al precedente: alla fine si scopre che sono tutti froci” lo sapevano in pochi. Gli amici di un’epoca lontana, quelli con cui parlare per ore di un copione limando giorno e notte all’inseguimento di una trovata (il primo comandamento era: se non fa ridere noi, nella sceneggiatura definitiva non finisce), i Benvenuti, gli Age, gli Scarpelli, De Bernardi o Suso Cecchi d’Amico che da veggente, aveva capito tutto senza poter vedere il mazzo delle carte: “Monicelli è senza dubbio il più segreto e il più pericoloso tra i miei molti fratelli, un tipo capace di gesti clamorosi rigorosamente in contrasto con i suoi interessi, se non addirittura con i suoi sentimenti”. Un letterato che aveva descritto il carattere dei suoi irrisolti compaesani più argutamente di un Leopardi e che, nonostante le profonde differenze che lo dividevano da Moretti (rese plasticamente in un indimenticabile duello nella trasmissione Match condotta da Arbasino) sull’uso delle parole e sulla loro importanza, si sarebbe trovato d’accordo con Nanni a cui rendeva più di quarant’anni.
Sempre Suso: “Monicelli si farebbe impiccare piuttosto che parlare di ‘ispirazione’, di ‘anima’, di ‘creatività’. Non direbbe ‘noi artisti’ neppure sotto tortura, né farebbe mai un capriccio per ottenere il dovuto da una produzione, ma lo farà per ottenere l’inutile, e tutto a suo danno”. Quelli come Mario non nascono più. Spartani, ma senza ideologie da vendere al mercato. Confinati in sessanta metri quadri affacciati sul chiasso della Roma di Monti, quella che più amava. Consapevole dei propri limiti: “Il cinema non produce arte, al massimo cultura”. Onesto, al centro dell’eterna armata Brancaleone che guidava alla sconfitta certa al pari dei suoi eroi di retroguardia: “Facemo mille petecchioni e contenti li sapienti e li minchioni” perché “chi ride”, diceva convinto di non mentire, “ruba alla morte” e quindi, ribaltando prospettiva, presente e futuro, non muore mai.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 16/5/2015