Gianfranco Marrone, TuttoLibri – La Stampa 16/5/2015, 16 maggio 2015
BARTHES, LE ALTRE COSE CHE SO SULL’AMORE
Icona letteraria indiscussa, Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes è un libro che ha ottenuto per decenni un’ininterrotta fortuna. Uscito in sordina a chiusura degli algidi anni Settanta, tutti dediti al sedicente Amore libero e alla conclamata Coppia aperta, questo libro geniale e sbarazzino fece subito scalpore: osava portare all’attenzione di studiosi e lettori, con lo stile di un semiologo tutt’altro che disponibile al compromesso intellettuale, il tema dell’esperienza amorosa, dell’innamoramento struggente e potente. Non più roba per damine svenevoli ma fenomeno sociale di tutta importanza. Alzi la mano chi non l’ha compulsato almeno una volta alla ricerca di espedienti forse colti, e sperabilmente efficaci, per sedurre l’amato o l’amata di turno. Scagli il primo bonbon chi non ha mai provato ad adoperare questo libro, regalandolo e declamandolo, per irretire l’oggetto del proprio amore infelice o, più prosaicamente, per rimorchiare la scappatella del sabato sera.
Il testo, nella sua ricercata eterogeneità di voci e di stili, si presterebbe a questi usi tutt’altro che filologici, ben più dei seriosi volumi sul medesimo argomento (Alberoni, Luhman, Bauman…) che ha, per ironica gemmazione, generato. Se non fosse che, secondo Barthes, le cose per l’innamorato non stanno messe poi così bene. Il fulcro del ragionamento che pervade la serie alfabetica delle «figure» amorose (pose ginniche più che tropi retorici) è d’una sconcertante chiarezza. L’amore è un’esperienza solitaria, la ricerca intima e teatralizzata di un oggetto del desiderio che ha comunque le sembianze di un fantasma: attraente, inafferrabile, ambiguo. Freudianamente, non si ama che la mamma: tutto il resto è letteratura. Ma il sentimento amoroso è anche un turbolento produttore di linguaggi. A fronte dell’immagine dell’altro, precisa nei dettagli ma confusa nell’insieme, l’innamorato parla, sproloquia, racconta, a se stesso o a chiunque gli capiti a tiro, del proprio sentimento ignorato. E al contempo l’innamorato non fa che interpretare i comportamenti e le parole dell’altro, soprattutto dove quest’ultimo non aveva voluto significare un bel nulla. Perché ha indossato proprio oggi quel foulard? cosa vorrà dire quel suo capriccioso inarcare le sopracciglia? come mai il suo ginocchio ha sfiorato il mio? cosa nascondono quegli occhiali scuri? Un tragico soliloquio dunque, come anche un vortice di segni forse vuoti. Altro che ineffabilità; altro che movimento collettivo a due.
A rilanciare tali faccende, e le loro conseguenti palpitazioni, arriva finalmente in traduzione italiana un volumone che raccoglie i due seminari sul linguaggio dell’amore che Barthes tenne a Parigi dal ‘74 al ‘76, dal quale è possibile cogliere la genesi dei Frammenti: con le indecisioni, i ritorni e gli abbandoni, la condivisione e le ritrosie che caratterizzano il lavoro dell’autore di opere celebri come Miti d’oggi o L’impero dei segni. L’interesse del volume, Il discorso amoroso (introduzione, traduzione e cura di Augusto Ponzio) deriva anche dal fatto che contiene molte pagine inedite, che erano presenti nel manoscritto dei Frammenti e che Barthes decise di eliminare nella versione a stampa. Si tratta di venti nuove figure del discorso amoroso (Il confidente, Doppiezze, Verso l’infanzia, Nella disperazione, L’iniziazione, L’amore reciproco…), più una lunga postfazione che illustra il metodo di questa curiosa collazione, le fasi del lavoro, la struttura del volume, nonché le ragioni di un corpus eteroclito che, sotto la guida del Werther goethiano e dell’onnipresente Nietzsche, raccoglie testi filosofico-letterari ed esegesi psicanalitiche, ma anche aneddoti Zen, ricordi personali, confidenze amicali.
Due sembrano essere i temi su cui Barthes più insiste in queste nuove pagine. Il primo è quello del ruolo primario del Libro d’Amore nella costituzione del sentimento amoroso: se i migliori trattati sull’amore sono romanzi, dice Barthes, è forse perché leggere storie d’amore e viverle nei fatti sono la stessa cosa. Come ben mostra l’esperienza del «libro galeotto» che unisce Paolo a Francesca, invano imitata da Werther, il quale prova a leggere i versi di Ossian a Carlotta sperando in un esito analogo a quello dei personaggi danteschi. Il secondo tema è quello della melodrammaticità, del gioco infinito dei ruoli sociali e del loro ribaltamento cui è continuamente sottoposto l’innamorato: il disperato, il piangente, l’iniziato, il puer senilis sono altrettante cariche che il soggetto amoroso è costretto a interpretare, ma che in qualche modo lo costituiscono come essere al tempo stesso sociale e intimo, logorroico e spasimante.
Gianfranco Marrone, TuttoLibri – La Stampa 16/5/2015