Giuseppe Marcenaro, il venerdì 15/5/2015, 15 maggio 2015
LA CUOCA DEI POETI
[Lucia Rodocanachi]
Ah! La gola «La gola è una virtù», sentenziava la cuoca dei poeti, ospiti nella sua casa. «Il sole brillava sulla tovaglia e sui cristalli in casa della signora Lucia Rodocanachi dove i poeti si radunavano... Dopo pranzo, davanti al caminetto acceso, ragionavano di Henry James, di Virginia Woolf, di Proust, di Gide, di Joyce... Erano un’aristocrazia...». Post gavazzata godevano dell’occasione. Unica. Avevano a loro agio una lettrice formidabile, una raffinata consigliera letteraria e una eccezionalissima cuoca.
In questo nostro tempo di spadellare televisivo, di bataclan sul buon mangiare, in previsione di una Expo consacrata al gourmet planetario, è affiorato, silente, un fino ad oggi sconosciuto «libro di cucina»: duecento pagine sbertucciate dall’uso, vergate con grafia di perfezione disarmante. Una collezione di sublimi peccati. Il libro segreto di una signora degli anni Trenta del Novecento che oltre a deliziarli con le sofisticherie di una raffinata conversazione, i suoi amici letterati li prendeva per la gola. Altro che vita letteraria coniugata con l’astinenza. Gli homme de lettre che frequentavano la casa di Lucia non resistevano. Golosi senza remissione. Anche se qualcuno, noli me tangere, confessava impunito di sentirsi satollo con un grissino.
Eugenio Montale si annunciava: «Arrivo. Ma ci saranno i ravioli? Vengo con un amico, Antonio Delfini, un autore di raffinati racconti. Sarà opportuno aumentare il diametro della torta Pasqualina». Alle agapi in casa di Lucia Rodocanachi si assisteva alle performance del pantagruelico ingegner Carlo Emilio Gadda. Sorbiva da solo, strabuzzando gli occhi di goduria, una zuppiera di «liquido minestrone». Il dichiarato frugalissimo Camillo Sbarbaro – bisbigliava di sapersi accontentare d’una patata bollita con un pizzico di sale – salivava acquolina su un piatto di amanite cæsarie al forno. Per poi disossare in religioso silenzio un Poulet jardiniére. Rilassarsi succhiando acini di uva salamanna diaccia, elevando carmi alle arcimboldesche pietanze accompagnate da vinelli rari e liquori di frutta da gorgogliare con concentrazione erotica. Per sé aveva scelto un più che eloquente pseudonimo: Godoardo.
Gli amici letterati di Lucia avevano illustri predecessori da imitare. In arte scrittoria (potendo). Sicuramente a tavola. Chi può dimenticare la lista di cibi compilata dall’impareggiabile Giacomo Leopardi? Inarrivabile, poeticamente parlando. Emulabile almeno come sgranocchiatore di confetti di Sulmona. Un chilo dei quali, fatti fuori in un pomeriggio, gli costò praticamente la vita. Dalle sue sudate carte, tra il venerabile manoscritto delle Operette morali, i polizzini che fanno da indice ragionato al superbo Zibaldone dei Pensieri, gli autografi di A Silvia, Il tramonto della luna, Ricordanze e ovviamente L’Infinito, salta fuori, una strisciolina di 198 per 58 millimetri, vergata con l’inconfondibile grafia: una lista di piatti: Tortellini di magro, Maccheroni e tagliolini, Capellini al burro... e di questo passo, passando tra Carciofi fritti al burro con salsa d’uova. Zucche fritte..., approdare al Bodin di ricotta e al Pan dorato... Se può valere quest’unico esempio di goloserie. Senza dimenticare l’universo di gottosi e crapuloni che costella la storia della letteratura.
Pochissimi, fino a quando Lucia Rodocanachi morì, erano al corrente di come la sua casa ad Arenzano, seminascosta da un uliveto, negli anni Trenta del Novecento, fosse stata punto di approdo di letterati. Si ignorava che lo scaltro Eugenio Montale, il cerimonioso Carlo Emilio Gadda, il fedele Camillo Sbarbaro, il cupo Elio Vittorini, il misterioso e coltissimo Roberto Bazlen, l’originale Henry Furst, Adriano Grande, Angelo Barile, Carlo Bo, Elena Vivante, Guglielmo Bianchi, Orsola Nemi, Gianna Manzini, Irene Brin... con i quali intratteneva una fitta corrispondenza, per la bellezza delle lettere che scambiava con loro, per la solita botta di snoberia intellettuale, l’avevano paragonata alla formidabile epistolografa dei tempi del Re Sole. Lucia Rodocanachi «la Sévigné dei nostri dì». Ma la fama di Lucia non era soltanto cartacea. Celebrata per i sontuosi pranzi che preparava. Nella casa tra gli ulivi ad Arenzano, due volte l’anno, riceveva la variegata compagnia di poeti e scrittori degli anni Trenta, non ancora assurta a emblema dell’italica letteratura. Appuntamenti fissi il Lunedì dell’Angelo e il giorno di Santo Stefano. Salvo occasionalità di avventizi incontri. «Mi dice» scriveva a Giovanni Ansaldo «che passerà a scappa e fuggi. Sono però certa troverà il tempo per una frugalissima colazione. In questa stagione le acciughe sono bellissime. Un modesto piatto di pomodori alla cornabûggia [origano]. Poi un dolce a sorpresa». Passabilmente Malakoff Pudding, magari Orange Cake. O per eccellere con una citazione letteraria, Emily Dickinson’s Ginger Breed. Va a vedere.
«A chi ci chiede» raccontò un giorno «l’argomento dei nostri discorsi d’allora è difficile rispondere. Nello snobismo e nell’esterofilia delle letture che ci fu rimproverato, non soltanto allora, c’era anzitutto il desiderio di evasione e l’orrore del rinchiuso che ci minacciava e incombeva sulla nostra vita. Questo desiderio, oltre che il gusto del tempo, ci rivolse alla lettura di libri inglesi e d’oltre Oceano (Dos Passos, Hemingway, Faulkner o la Dickinson e la Woolf) e a riletture. A questo faceva da contrasto un attaccamento alle tradizioni gastronomiche, di stretta osservanza locale (il pesto, il Cappon magro, la Pasqualina, le lattughe piene), quasi un omaggio al regionalismo condannato in tempi imperiali e romani».
La passione per la lettura e la conoscenza delle lingue furono la sua nemesi. Ironizzando con consolatoria e sottile perfidia, chiamandola négresse inconnue, Montale auspicava per lei un po’ di maggiore notorietà. Sconosciuta negra, «schiava» dei suoi amici letterati per i quali oltre a preparare pranzi degni di uno chef del Ritz, traduceva romanzi stranieri, le cui celebrate «versioni d’autore» gli amici suoi firmavano impudicamente come eseguite da loro. Nata a Trieste nel 1901, trasferitasi nel ’14 con la famiglia a Genova, nel ’30 aveva sposato il pittore Paolo Rodocanachi. «Poiché c’era l’acqua buona», per qualche tempo decisero d’andare ad abitare ad Arenzano. Si fermarono tutta la vita. La loro casa divenne punto d’incontro di letterati e artisti.
Soltanto verso la fine della sua vita permise fosse fatta breccia in quel tramontato mondo del quale parlava con reticenza. Era il «suo mondo». Bisbigliava allora piccole frasi, smozzicate, come se il ricordo affiorasse da sequenze ritagliate nel buio. Lasciava intendere, nella pur formale cortesia, come non le piacesse sentirsi costretta a rievocare anni che cercava di dimenticare. Preferiva parlare di formiche argentine, di bulbi di dalie, degli ulivi del giardino. Però non le sfuggiva nulla di quanto accadeva nella «repubblica delle lettere» e cosa andassero pubblicando i suoi antichi amici – scrittori ormai affermati – che si erano dimenticati della «Sévigné dei nostri dì», delle colte conversazioni e della prelibatezza dei suoi piatti. Per un futuro impossibile, per inveterata abitudine, continuò a ritagliare articoli che riguardassero i remoti frequentatori della sua casa, infilandoli dentro ai loro libri che comprava e leggeva con devota attenzione. Rimasta vedova, campava solitaria con la discreta presenza di qualche avventizia domestica. Con un estremo amico, un giovane dalle aspirazioni letterarie, improprio revival del suo tempo, aveva ripreso a preparare sontuose colazioni. Due volte l’anno, proprio come allora: il Lunedì dell’Angelo e il giorno di Santo Stefano.
Il ricettario della «Babette dei nostri dì», ritrovato in questi giorni, è compilato in diverse lingue: il piatto è ragguagliato nell’idioma della sua origine: Sauce au chocolat, Plum Cake, Petits fours, Crapfen, Pudding, Cederbrot, Mandelmakronen, Secret des dames, Luisenbrötchen, Hussarenkrapfen, Schnitzbrodt, Spekulatius, Leckerli, Biscuits Sarah Bernhardt, Fricandeau, Brandade, Boeuf à la bourguignonne...
Lucia vagheggiava la ricetta, mai trovata, di un Christmas pudding, confezionato dalla cuoca di una famiglia genovese dell’Ottocento, che abitava in via Roma. Di quel miracolo cuciniero Lucia aveva inteso parlare da ragazzina. Lo sorprese poi, elogiato, in Pictures from Italy di Charles Dickens che aveva avuto modo di assaggiare quel mitico Christmas pudding durante il suo soggiorno a Genova, nel 1846.
Giuseppe Marcenaro