Piero Melati, il venerdì 15/5/2015, 15 maggio 2015
RIZZOLI IL FALCO: PER ARBITRARE METTO IN PRATICA L’ARTE DELLA GUERRA
ROMA. Il miglior arbitro del mondo, Nicola Rizzoli, architetto, classe 71, l’uomo che ha diretto al mitico Maracanà la finale dei Mondiali 2014 tra Germania e Argentina, ha un superpotere. Gli antichi arcieri lo chiamavano «l’occhio del falco». È un trucco primitivo: se tu diventi la freccia, allora beccherai il bersaglio. Mettiamo che Lionel Messi, il piede più incantato del pianeta, si appresti a tirare una «punizione a girare» verso l’area avversaria, e che «le torri» della squadra si preparino a incornare. A contrastarli ci sono i mastini della difesa. Il pacchetto di mischia, prima che Messi telecomandi la sfera, sprigiona gomitate, spintoni, spallate. Che cosa fa l’arbitro migliore del mondo? Focalizza lo sguardo sui due o tre duelli più brutali Si è preparato, prevedendoli. Conosce già abituali movimenti, astuzie e colpi bassi dei protagonisti. E ora si concentra. Come una freccia che deve andare a bersaglio con la vista.
«È come avere un monitor molto vicino. Quasi impossibile mettere a fuoco ogni particolare. Vedi tutto, ma ti concentri su quel che ti interessa maggiormente. In campo devi sapere prima da dove possono arrivare i problemi, in che posizione metterti, come guardare. Devi curare ogni dettaglio» spiega.
La regola si chiama «Guardare, vedere, controllare ciò che puoi». Rizzoli la rivela in Che gusto c’è a fare l’arbitro, memorie di un protagonista nel bel mezzo del successo. Sono le lezioni di un vincente. «L’ho scritto non per parlare di me, ma degli arbitri» spiega. Occasione appetitosa. I fischietti sono un pianeta inesplorato, a chiusura ermetica, fatto di dogmi esoterici e costumi da setta segreta. Rizzoli, invece, spalanca le porte. Lui, dai campetti di calcio di Mirandola, provincia di Modena, ha fatto tutta la gavetta: i nasi rotti delle categorie minori, le risse in prima categoria, i derby cattivi della serie C, le partite arbitrate «da disastro» in B, fino alla serie A, la patente di «internazionale», la prima finale di Europa League, la finalissima di Champions (sesta divisa italiana a sostenerla), e infine il Maracanà: terzo arbitro tricolore, dopo Collina e Gonella, a vedere dal campo una Coppa del Mondo. Scrive: «Avrei voluto toccarla, ma avevo paura di farla cadere dal piedistallo, in mondovisione».
A unire i primi calci ad un pallone alla spazialità dello sport moderno («tutta questione di millimetri, frazioni di secondo, minimi dettagli e velocità supersoniche» spiega) c’è un libro. Ma che libro: L’arte della guerra di Sun Tzu, trattato cinese di strategia militare. «Mi ha cambiato la vita, mi ha insegnato ad affrontare, preparare, vedere. È attualissimo per la vita quotidiana di ognuno, per me come per un manager. Incredibile quanto l’antica saggezza possa riguardare così tanto un mondo supertecnologico».
Rizzoli è in Spagna. All’indomani del nostro colloquio telefonico di tre quarti d’ora avrebbe arbitrato Barcellona-Bayern Monaco, semifinale di Champions. Tranquillo? «Si, ma non per l’abitudine. Si deve stare sulla corda, anche quando la corda è molto sottile e può spezzarsi. E poi, come dico agli amici prima di arbitrare, speriamo che domani non mi guardo la partita. Nel senso che non sono in campo per godermela. Ammiro i gesti tecnici, certo. Ma per meno di mezzo secondo».
Ma come può venire in mente a un architetto di fare l’arbitro? «Colpa di un mio compagno di classe. Da giocatore rompevo sempre le scatole sulle regole. Così, una volta, ero fermo per un infortunio, mi disse: vieni a fare il corso, così capirai cosa sono le regole». E qui comincia l’avventura. I primi test: guardi una foto sullo schermo per una manciata di secondi, poi la foto scompare e tu devi descriverla. Facile, no? Meno il secondo test: di una foto devi ricostruire esattamente ogni singolo dettaglio. Ride al ricordo. «Il trucco è imparare a selezionare tutto e archiviarlo nella mente con un metodo preciso». In questo modo si allena l’ultravista. Il resto, per forza, deve farlo l’esperienza.
Ma prima, un arbitro esordiente ha un altro problema bello grosso: «Deve farsi rispettare. Questo lo impari sulla pelle. Viene dall’interno. In generale, nella vita, devi sempre farti rispettare come uomo di fronte a un altro uomo. Ma in campo la questione è doppia: reciti un ruolo, quindi devi fare rispettare anche la figura che rappresenti».
La sua prima volta in serie A Rizzoli arbitrava l’inter. Aveva appena ammonito Patrick Viera, senegalese di 195 centimetri per 85 chili di peso, per la classifica Fifa uno dei primi 125 calciatori del mondo nel 2004. Il giocatore non l’aveva presa bene ed era scattato come una furia verso l’arbitro. «Ero un novellino, voleva mettermi alla prova» ricorda Rizzoli. Per due volte l’uomo in divisa alza la mano e grida: «Non si avvicini». Niente. Viera ha perso la testa, non ferma la sua corsa. «Sono costretto ad estrarre il rosso quando ormai mi è addosso». Poi, per fortuna, i compagni trattengono l’espulso. Ma, intanto, il battesimo del fuoco fu cosa fatta.
Capitolo errori, altra lezione zen. «L’ho detto l’altra volta a un mio collega di serie A, ancora depresso per un errore: “Se pensiamo di essere perfetti, quello è il vero passo falso. Noi sbagliamo, devi solo riflettere molto sul perché e poi migliorarti”». Lui i suoi errori li ha messi in fila nel libro: un Ancona-Pistoiese con otto ammoniti e due espulsi («ero stato troppo zelante, perché ci avevano detto di essere più severi») e Fiorentina-Lazio del 2005. «Mamma mia» ricorda «quattro fuorigioco importanti sbagliati e un rigore non fischiato». In questi casi che si fa? «Non si dorme, si studia e si ristudia, ci si dice: se migliori fai carriera e scali verso l’alto, se non scali è perché non sei migliorato o c’è qualcuno migliore di te. Niente alibi. Mai».
Una volta, però, il samurai del fischietto voleva mollare davvero. Nel 2008, dopo lo scandalo di Calciopoli, si prese un famoso vaffa dal capitano della Roma, Francesco Totti. Si limitò ad ammonirlo, venne messo alla gogna. «Ma Totti ebbe quella reazione solo dopo aver sbagliato un tiro per colpa mia, che inavvertitamente gli avevo fatto velo, con la Roma sotto di un gol». Rizzoli dovette finire l’anno arbitrando in B. Ma poi riprese la scalata. Come una testuggine.
E oggi? Oggi pensa che non sia giusto punire con l’espulsione un fallo in area da ultimo uomo, se è già stato concesso un rigore. «Ma per ora la regola è questa, l’Italia ha chiesto di cambiarla, sono d’accordo». E il fuorigioco, spesso fischiato per un piede? «C’è di peggio, a volte viene fischiato anche per un naso. Ormai i nostri assistenti di linea sono diventati dei mostri a individuarli. Ma le regole si devono applicare, finché non vengono cambiate». E presto arriveranno anche le tecnologie, a gestire un calcio fatto di dettagli. Ma noi ci consoliamo: a dare il triplice fischio finale sarà sempre un uomo chiamato arbitro. Come ai tempi dell’Arte della guerra.