Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 15/5/2015, 15 maggio 2015
OBAMA E LA FIDUCIA DELL’ALLEATO SAUDITA
Pur di compiacere i dettami islamici del suo ospite Ibn Saud, Frankin Delano Roosevelt 70 anni fa si nascose a fumare l’amato sigaro nell’ascensore dell’incrociatore Quincey ormeggiato nel canale di Suez. Era il 14 febbraio 1945, Stati Uniti e Arabia Saudita stavano per stringere un patto fondamentale negli equilibri del Medio Oriente: petrolio e basi aeree in cambio della protezione americana del Regno. In queste ore a Camp David il presidente Barack Obama ha tentato di convincere Riad e le monarchie del Golfo che un eventuale accordo sul nucleare con l’Iran sciita non incrinerà l’alleanza con Washington. Ma nessuno ci crede, né gli arabi e neppure lo stesso Obama che da tempo progetta di cambiare la politica americana in Medio Oriente e l’atteggiamento verso il regno saudita, una monarchia sunnita assoluta basata sull’Islam wahabita che spende per diffondere il suo credo ultraconservatore 3 miliardi di dollari l’anno, finanziando con discrezione anche i jihadisti.
L’alleanza rimane ma nessuno pensa che le cose resteranno come prima perché gli equilibri sono già cambiati da un pezzo. La guerra contro Saddam Hussein nel 2003 ha regalato all’Iran la pelle del suo più acerrimo nemico e un governo sciita a Baghdad naturale alleato di Teheran che ora si affida ai Pasdaran e alle milizie sciite per resistere al Califfato e ai sunniti. Non solo. Teheran sostiene il regime siriano di Bashar Assad e gli Hezbollah libanesi, estendendo la sua influenza dall’altopiano iranico fino alle sponde del Mediterrano. I sauditi, con una nuova leadership più bellicosa della precedente, sono infuriati: Obama ha bloccato finora la loro invasione di terra dello Yemen contro i ribelli Houti, sciiti zayditi e alleati dell’Iran.
Per 70 anni i sauditi non hanno mai avuto dubbi che gli americani fossero dalla loro parte. Ma se il re saudita Salman, con la scusa della tregua in Yemen, ha deciso di non partecipare al vertice di Camp David, insieme ad altri tre sovrani, significa che oltre ai dubbi si è insinuato anche un senso di rabbia e frustrazione. Espresso in maniera eclatante in un editoriale della tv saudita Al Arabiya dal titolo significativo: “Non ci fidiamo delle promesse di Obama”.
Gli effetti di questa crisi di fiducia non tarderanno ad affiorare, soprattutto se nel Golfo comincerà una corsa al nucleare delle monarchie del Golfo intenzionate, a quanto pare, a colmare il gap tecnologico con Teheran: buone notizie per le società occidentali del settore forse un po’ meno per l’attenuazione delle tensioni mediorientali.
Un’insofferenza nei confronti degli Usa che si è manifestata nelle trionfali dichiarazioni saudite sulla loro strategia di mantenere intatti i livelli di produzione del greggio che hanno abbattuto le quotazioni. Riad si è detta orgogliosa
di avere consolidato la leadership della famiglia Al Saud sul mercato globale tenendo lontani gli investitori proprio dallo shale oil americano che ha costi di estrazione più elevati. Staffilate e colpi di fioretto tra alleati non sono nuovi ma i sauditi inviano segnali di nervosismo sempre più frequenti perché la partita per i custodi della Mecca è strategica. Riad non teme solo il nucleare dell’Iran ma che la repubblica islamica, alleggerita dalle sanzioni, riprenda il suo ruolo di potenza economica: e il denaro è stata finora la maggiore arma diplomatica e ideologica in mano alle monarchie del Golfo.