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 2015  maggio 12 Martedì calendario

CONSULTA: I CUSTODI DEL DIRITTO. E DEL ROVESCIO

La gran parte dei commenti alla sentenza numero 70 del 2015 della Corte costituzionale si sono concentrati sul calcolo dei suoi effetti sugli equilibri di bilancio pubblico dell’Italia. Facendo di lavoro gli economisti, e non i costituzionalisti, a questo dovremmo forse limitarci e dare un contributo all’affinamento delle stime.
Ma oltre che economisti siamo cittadini. Come cittadini, vogliamo certamente essere tutelati dai rischi di strapotere dei governi. Siamo quindi in linea di principio rassicurati dall’esistenza e dall’attività di un organo terzo come la Corte costituzionale che, di fronte a una controversia tra cittadini (rappresentati dal giudice comune) e Stato, prova a incarnare l’interesse di più lungo termine della collettività. E lo fa guardando sia al dettato costituzionale che alla giurisprudenza che si è accumulata nei quasi settant’anni che ci separano dalla stesura della Costituzione della Repubblica.
Poi, però, esiste anche la sostanza delle controversie. Di fronte alla quale anche a cittadini che apprezzano l’esistenza e l’operare di contrappesi ai governi, riesce difficile riempire un fossato, quello che separa il dettato costituzionale dalle implicazioni che, dal rispetto di quel dettato, ne ricava la Consulta nella sentenza appena ricordata.

I principi difesi dalla sentenza
In vari punti nella sentenza della Consulta si richiamano gli articoli della Costituzione a cui i giudici delle leggi fanno riferimento per decidere in modo negativo sulla questione della costituzionalità del provvedimento del governo Monti che – si ricorda – manteneva l’adeguamento del trattamento pensionistico all’inflazione solo per le pensioni al di sotto di tre volte il minimo. Si tratta dell’articolo 38 secondo comma (“i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”), dell’articolo 36 primo comma (“il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) e del combinato disposto (si dice così) tra articoli 36, 38 e 3. L’articolo 3 stabilisce l’uguaglianza di tutti davanti alla legge indipendentemente da razza, sesso e altre circostanze comprese le condizioni sociali.
Per la Consulta l’assenza di rivalutazione delle pensioni più ricche lederebbe vari principi costituzionali. “L’assenza della rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione”, mentre “il blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità” tra pensione e retribuzione lavorativa. Infine, “la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale altererebbe il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando un’irrazionale discriminazione a danno della categoria dei pensionati”. Niente di meno, il tutto richiamando varie pagine di giurisprudenza costituzionale.

Le conseguenze da trarre
In tutto questo c’è però una cosa che colpisce. Un cittadino non dotto in materie giuridiche si potrebbe per esempio chiedere come mai i diritti dei pensionati siano da preservare in punta (acuminata) di diritto, mentre quelli dei dipendenti pubblici, i cui scatti di anzianità sono congelati dal 2010, non richiedano una simile difesa. Anche quel provvedimento del 2010 può ledere i principi costituzionali sopra elencati, mettendo in forse “la conservazione nel tempo del valore” dello stipendio. Si potrebbe anche chiedere come mai per l’Alta Corte, il principio di “proporzionalità tra pensione e retribuzione lavorativa” non sia violato dall’esistenza di fatto di due sistemi pensionistici, uno, il retributivo, per le pensioni in essere, che genera un legame tra retribuzione e pensione molto più stretto dell’altro, il contributivo, che varrà invece per le pensioni del futuro, cioè per i giovani attuali. Viene il sospetto che per la Consulta i pensionati attuali siano lavoratori, mentre i lavoratori del pubblico impiego o i giovani lavoratori del pubblico o del privato non lo siano.
Ma non può essere così. Se non altro perché la discriminazione tra categorie sociali è vietata dalla Costituzione, proprio nell’articolo 3, il cui combinato disposto con il 36 e il 38 è richiamato nella stessa sentenza. D’altra parte, se avessimo usato per tutte le categorie gli stessi principi invocati dalla Consulta per i pensionati, allora pur in mezzo alla crisi, non avremmo bloccato gli stipendi pubblici o riformato il sistema pensionistico, con il probabile effetto che lo Stato sarebbe andato a rotoli, non potendo dunque garantire gli stessi diritti che la Consulta intende difendere.
La conclusione allora è che questa sentenza, per quanto formalmente e giuridicamente ineccepibile, fa fatica a passare il test che conta davvero per i cittadini. Quello della ragionevolezza.