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 2015  maggio 14 Giovedì calendario

LA BELLEZZA DI ESSERE UNA PROVINCIALE


[Sabrina Ferilli]

Gli occhi buoni e il sorriso di chi ha attraversato i ragionamenti della vita. Accettandone le fatiche, anche i rischi, ma respingendone sempre i compromessi. Oggi Sabrina Ferilli è una donna serena. A 51 anni (li compie il 28 giugno) la sua Grande Bellezza resta da Oscar, ma sono il suo cuore e la sua testa libera a metterci subito in sintonia. Del resto ha sempre detto che la bellezza è un valore aggiunto, ma «è l’intelligenza che ci salva in ogni occasione». In più lei ha l’ironia, propria di chi le misure al mondo le ha prese senza recitare una parte, ma mettendosi in gioco. E non è stato sempre facile per una 14enne formosa che i coetanei ignoravano perché in lei vedevano la zia più che la fidanzatina. Oggi fa sorridere l’idea che per conquistarsi il primo bacio adolescente abbia dovuto mixare da sola una cassetta romantica con canzoni di Claudio Baglioni e Lucio Battisti. Lei ci scherza, ma venne bocciata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma da chi definì «la sua bellezza non esportabile». Un’ottusa miopia disarcionata dall’assegnazione dell’Oscar al film di Paolo Tarantino (migliore pellicola straniera 2014), a cui vanno aggiunti, tra gli altri, tre Nastri d’Argento, un Globo d’Oro e tre Ciak d’oro, tutti arrivati per le sue interpretazioni in La bella vita (regia di Paolo Virzì, 1995), Tutta la vita davanti (di Virzì, 2008) e La grande bellezza (2013).
Dicono che non sia facile intervistarla, ma forse è perché non la si vuole ascoltare. Io l’ho conosciuta nel camerino del Manzoni a Milano dopo essermi divertita con Signori... le paté de la maison, brillante commedia che da due stagioni puntella di sold out i teatri italiani. Uno sguardo, due parole veloci e un sì immediato e spontaneo a un successivo incontro. Avremmo chiacchierato insieme qualche giorno dopo a Gallarate, in provincia di Varese, dove la Ferilli ha fatto tappa con Maurizio Micheli, attore e regista, e il resto della compagnia. Ci vediamo prima che salga sul palcoscenico del Delle Arti. Arriva con qualche minuto d’anticipo. Un filo di trucco, un completo nero, niente tacchi. L’abbraccio elimina i reciproci timori. E così è facile aprire l’album della vita e leggerlo insieme. Quasi fossimo nella sua casa d’infanzia, in mezzo a una vigna, o in attesa di partire con la famiglia sulla vecchia Fiat di papà per le vacanze a Rimini.
Siamo in un teatro di provincia. Tu rivendichi la bellezza delle tue origini, il bello di essere cresciuta in una dimensione dove il contatto umano e i sentimenti da non tradire ti hanno fatto diventare un’adulta con la schiena dritta
«Gustave Flaubert diceva che ormai solo le province hanno ancora la capacità di sorprenderci, di farci sentire i battiti cardiaci e probabilmente è così. Io sono cresciuta a Fiano Romano, un piccolo paese a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Devo molto a quella realtà. Ho appreso i valori da cui non si può prescindere, la semplicità dell’esistenza, la saggezza degli anziani. Crescere in una realtà provinciale non è mai stato un limite, ma un arricchimento. I grandi film d’animazione alla Walt Disney arrivavano nei cinema di Roma. Troppo lontani. Noi in televisione ci godevamo in bianco e nero le grandi pellicole neorealiste o i film con Totò e Stanlio e Ollio. Il cinema in quegli anni è stato la mia tata, poi da grande, invece, mi ha fatto da cavaliere concedendomi quei “lussi” che la mia famiglia non si era potuta permettere. In provincia non ci sono meno cose da fare o da vedere, ma cose diverse. E così cresci con l’idea che il mondo è fatto di tanti mondi, tutti ugualmente importanti. Oggi mi accorgo che c’è chi evita di portare la propria compagnia teatrale in provincia. È un errore. Non ci sono pubblici di serie A o di serie B. Anzi spesso i teatri di provincia hanno una sensibilità e una freschezza verso le cose e gli eventi anche più forte».
La tua carriera è stato uno spaziare su tutto, senza preconcetti o snobberie. A conferma che non solo non ha senso una società classista, ma neppure una cultura divisa tra elite e popolare
«Io credo di essere una delle poche persone che anche a distanza di anni non è mai caduta in contraddizione con i propri ideali e una certa visione della vita. Ho fatto tutto, con entusiasmo. Film impegnati, i musical a teatro, ho presentato Sanremo, ho girato spot pubblicitari, ho fatto il giudice ad Amici, ho recitato nella prima fiction tutta al femminile, non ho dribblato quelli che con sufficienza vengono definiti cinepanettoni. Ho interpretato ruoli di ogni tipo e alla fine sono sicura che la gente ha capito e mi valuta per quella che sono».
Sabrina, ho letto il tuo giudizio in condotta alle scuole medie: educata, rispettosa, generosa. La ragazzina di ieri è la donna di oggi.
«Mi hai colpito e commosso con questo ricordo che avevo archiviato. Però sono esattamente così, come hai osservato tu. Il rispetto è una qualità che mi ha accompagnato in tutto il mio percorso ed è stato il mio pilastro per arrivare a certi livelli. Proprio il rispetto, l’attenzione, il sentire il privilegio di lavorare in determinati contesti e con tanti grandi maestri sono punti fermi e responsabilità che non tradirò mai».
Se oggi sei una bella persona “dentro” è perché hai avuto un papà e una mamma che ti hanno insegnato la differenza tra il bene e il male. E ti hanno fatto capire che per stare bene tu, dovevi far star bene anche chi condivideva il tuo cammino.
«La mia famiglia è il 90 per cento di me. Sento spesso, anche nei talk show televisivi, che nella crescita dei figli si caricano di doveri la società e la scuola. Sì, è vero, la scuola deve essere un mattone indispensabile per fondamenta sane e forti, ma al primo posto assoluto ci deve essere la famiglia. Una mamma e un papà attenti, presenti, severi e capaci di essere esempio concreto per i propri figli sono insostituibili. La mia famiglia è speciale. Restiamo un clan d’amore, un tutt’uno, pronti ancora ad aiutarci insieme. Io, mio fratello Pierpaolo, mia sorella Cristina, mamma Ida e papà Giuliano. È il bello della nostra normalità. È la nostra quotidianità. Lo sai per chi è la mia prima telefonata mattutina? Per papà. Ogni giorno. Sempre a lui. Commentiamo le notizie, ce la raccontiamo su per una decina di minuti. Tutti nostri. È il nostro buongiorno, sicuri che sarà un buon giorno».
Nata e cresciuta in una famiglia di sinistra, con tuo papà capogruppo del Pci alla Regione Lazio. A casa tua cenavano Napolitano, Pajetta, Berlinguer, talvolta anche Ingrao. Da bimba andavi ai loro comizi e alla domenica vendevi l’«Unità» porta a porta. Hai sempre partecipato a tutto quello che ti succedeva intorno, non nascondendo mai il tuo pensiero. Ma con un principio saldo: le idee sono più importanti delle ideologie
«Allergica alle ideologie. Da sempre. Ed è stata proprio questa la grande lezione politica che mi ha dato mio padre e che io ho assorbito totalmente: una grande libertà e un grande rispetto anche per le idee degli altri. Mai pensato che chi non la pensa come me è stupido. Sono contro qualsiasi ottusità e finti perbenismi. Io penso quello che sono e sono quello che penso. Anche nel mio ultimo spettacolo teatrale mi diverto a smontare luoghi comuni e ideologie fondati su una certa ipocrisia culturale e politica, a cui neppure la sinistra sfugge. Non voglio condizionamenti, da qualsiasi schieramento giungano. Magari ti ritrovi a percorrere una strada più irta, ma vuoi mettere la tua libertà?»
Anche per questo non sei mai scesa in piazze femministe diffidando «da discorsi vecchi con un’etichetta nuova».
«L’emancipazione femminile mi trova pienamente d’accordo. Io sono una donna che ha fatto un percorso particolare, non usuale ancora oggi in un Paese come il nostro. E da donna ho condotto molteplici battaglie, senza mai nascondermi. Ma sono sincera. A me non piacciono i radicalismi, li trovo pericolosissimi. Sociali, religiosi, politici. Tutti. Non faccio distinzione. Tutto ciò che finisce in “ismo” mi fa paura. Il femminismo è uno di questi. E quindi ci sto alla larga».
Grandiosamente ottimista non hai mai detto «mondo infame». Ma «governo ladro»?
«Il mio ottimismo nasce dalla constatazione che croci da portare ce ne saranno sempre, ma è il nostro atteggiamento ad attutirne il peso. Arrovellarci su una delusione non ha senso, ci preclude quello che di buono ci attende. Il buonumore è uno strumento vincente per trovare il bello sempre. Per questo non c’è un attimo in cui impreco contro il mondo. E vado controcorrente anche sull’altro fronte, quello del “governo ladro”. Ti spiego. I politici sono un po’ la faccia nostra. La verità è che il nostro Paese conosce la corruzione, ce l’ha intrinseca nel Dna. È un Paese che appena viene messo in tentazione, nella tentazione ci cade. Certo, noi abbiamo il diritto di urlare a squarciagola che un politico che ha la responsabilità di agire per il meglio della collettività non può commettere errori o cadere nella sporcizia. È sbagliato, tremendamente sbagliato se lo fa. Ma è altrettanto grave che un cittadino si faccia corrompere. La condanna deve essere trasversale. Chi ruba è un ladro e va punito. Politico e cittadino. E non dimentichiamoci mai che in genere chi ci rappresenta l’abbiamo messo lì noi».
Altro che Sergio Mattarella, c’era chi voleva te come Presidente della Repubblica! Hai scoperto chi ti ha votato?
«Nessuno di quelli che conosco... Sicuramente due cazzari...».
Sei lo spot di quello che ogni persona dovrebbe essere: in pace con se stessa. Per riuscirci, dici, non c’è che la correttezza. Tuo papà te lo ricorda spesso: il vero non disonesto è quello che potrebbe rubare e non lo fa.
«È proprio così. Non c’è nulla di più appagante della correttezza. E io lo sono. Per questo non temo nulla e lo dico in piena serenità. Se capisci il valore dell’onestà e della correttezza lo fai tuo e lo trasformi in un percorso quotidiano. Una strada dritta, senza eccezioni. Ogni giorno. Per rispetto a te come persona, ma anche al tuo essere cittadino che si deve relazionare con gli altri. Una società sana passa da ognuno di noi, si costruisce insieme».
C’è un’altra cosa eccezionale: non prendi scorciatoie.
«Non faccio mai niente perché mi aspetto qualcosa. Centrare l’obiettivo è una conseguenza, non l’inizio di tutto. Mi sono sempre impegnata in un certo modo. Ho sempre creduto che lavorare sia una forma di grande dignità e libertà e che meriti il meglio. C’è chi pensa che sia un limite pensarla così, per me resta l’unica maniera possibile. Non abbassare mai la guardia e dare sempre il massimo per ciò e chi conta. Lavoro e affetti, sempre. Io e miei fratelli condividiamo la stessa filosofia, abbiamo focalizzato gli stessi principi. Mamma e papà hanno lavorato bene con noi».
Il nostro Paese è stritolato dalla disoccupazione, sopratutto giovanile. Ti senti una privilegiata?
«Certo, io so di esserlo. Ma sono anche una che non ha mai avuto una sicurezza in niente. Non ho mai fatto un lavoro pubblico, quindi non ho mai goduto di giorni di malattia, permessi o ferie pagate. Mi sono conquistata tutto, mi sono data da fare, cercando e prendendo quello che arrivava. Mai avuto materassi. Mi sono rimboccata le maniche sin da quando ero studente, abbinando il lavoro alla scuola. L’estate la trascorrevo nella ferramenta di mio zio. Ma ho fatto anche la segretaria e la centralinista in un’agenzia di pulizie. Mi sono sempre data da fare perché questo faceva parte delle regole di casa. Mamma e papà erano stati chiari. Io e i miei fratelli nella nostra estate da studenti dovevamo impegnarci per contribuire alle spese di casa. E questo ci ha unito ancora di più. I nostri genitori ci hanno insegnato la dignità del lavorare: non esistono occupazioni “umilianti” e altre da rincorrere, esiste solo l’orgoglio di dare il meglio di noi. Oggi non solo manca il lavoro, ma manca pure quell’orgoglio. Forse anche la passione. E io credo che se oggi non sovvertiamo i valori di un’economia improntata sulla finanza, finiremo per ritrovarci alienati da un lavoro che non ci da nulla. Perché le vere fonti di guadagno deriveranno da speculazioni finanziarie».
Ti sei arrabbiata quando alla consegna dell’Oscar alla Grande bellezza tu non hai potuto calcare il red carpet perché ti hanno lasciato in Italia...
«No, non è andata proprio così. Io non avrei potuto comunque essere a Los Angeles. Stavo a teatro a Catania e poi avevo altre tappe subito dopo. Per scaramanzia non avevo cancellato le piazze mesi prima pensando che potessi vincere un Oscar. È vero però che non riusciamo a godere appieno le grandi imprese che centriamo. Erano 15 anni che un nostro film non si aggiudicava un Oscar, il suo valore corale andava amplificato. E invece...»
E invece hai detto che il nostro è un Paese di talenti, non di squadre.
«È così, è un problema tipicamente italiano. Noi siamo così, fenomeni di individualità e di individualismo. Imbattibili nel proprio orticello, ma senza saper organizzare il gioco di squadra...»
In questo campionato qualcosa di simile è capitato pure alla tua Roma...
«Ma dai, quello è un altro campo. La Roma è una bella squadra. Sempre. È una fede. Ha solo un problemuccio. Lavora parecchio per arrivare dove tutti noi tifosi la vogliamo. Poi appena pensa di riuscirci, molla...»
Nella vita il coraggio premia. Sei abituata a lasciare strade comode per «emigrare di qua e di là senza tremare». Te ne ricordo due: agli inizi hai conquistato Garinei in un provino per il musical «Alleluja, brava gente» cantando Sandokan e lo scorso dicembre hai debuttato da conduttrice nel talk show «Contratto» in onda su Agon Channel, la tv albanese.
«Io sono fatta così. Non faccio mai niente perché mi aspetto qualcosa ma perché mi entusiasma farla. Non temo le sfide, mi piace mettermi in gioco e credo che sia un modo per restare giovani e libere di testa. Magari c’è pure un pizzico di follia nell’aver intonato quel Sandokan, giallo il sole la forza mi dà... E non so neppure in quanti dei miei colleghi avrebbero accettato di andare a Tirana non per farsi intervistare, ma per intervistare. Io l’ho fatto. So una cosa: quando c’è la volontà di lavorare non occorre farsi troppe domande, occorre lavorare e basta».
Il cibo. Uno dei piaceri della vita e la tua benzina. Senza privazioni ma in maniera sana. Anche quando sei sola a casa per te è un rituale irrinunciabile.
«Io ho sempre mangiato, di tutto e con gusto. Sono contro la politica del panino o dello stuzzichino veloce, al bar e magari in piedi. Io sento proprio il bisogno di sedermi a tavola e di prepararla con cura. Anche se sono da sola. Lo trovo rispettoso nei miei confronti. Tovaglia, bicchiere, piatti, tutto appropriato. E poi mi piace cucinare. Tanto. Per me e per gli amici. Sopratutto i primi piatti. Adoro l’amatriciana, la Carbonara, la pasta alla norma... Mi preparo pure le lumache alla romana, con mentuccia, aglio, alici e pomodori. Invece quando vado dai miei, mamma mi fa impazzire coi fiori di zucca con mozzarella e alici».
La tua interpretazione della spogliarellista Ramona ne La grande bellezza è di una malinconia struggente. Ti ho ritrovato moltissimo in una frase che spacca il cuore per la sua verità. Ti ricordi cosa risponde Ramona a Jep Gambardella quando le dice: «È stato bello non fare l’amore»?
«Sì...“È stato bello volersi bene”. Volersi bene è un sentimento molto più forte, che ti resta appiccicato alla pelle e ti accompagna spesso per una vita. Ti tiene compagnia, ti sorregge, talvolta ti asciuga le lacrime. Fare l’amore può essere, invece, solo sesso, esclusivamente un gesto fisico. Straordinario ed eccezionale quanto vuoi, ma è un meccanismo. Volersi bene è aprirsi con il cuore. È una ricerca, è un percorso di conoscenza e pazienza. È studiarsi, ricercarsi, perdersi, ritrovarsi. Sottrarsi, senza sentire la fatica di togliere a se stessi per donare all’altro».
La serenità è un obiettivo perseguibile, la felicità è impossibile perché dura un istante
«La felicità è un momento, la serenità è uno stato d’animo. Io sono serena che è qualcosa di molto prezioso perché è il sorriso costante delle mie giornate. Poi ti capita l’entusiasmo della felicità e, magari, la ritrovi in un giorno speciale, quando realizzi di aver raggiunto una meta».
Ma è vero che sei una rompiscatole?
«Io sono una pignola. Come lo sono sul lavoro, lo sono anche nella vita».
Con te è più difficile diventare o restare amica?
«Diventarci. Se mi diventi amica è un per sempre. Accanto a me ci sono ancora i compagni dell’infanzia e la ragazzina conosciuta a 15 anni. L’amicizia è come l’amore: un sentimento che non va tradito, ma difeso e tutelato. Dare e pretendere fedeltà, nient’altro. Io non ho amici che vanno e vengono. I miei amici restano con me e io con loro».
Ti rivedremo presto al cinema nel film «Io e lei», con Margherita Buy e la regia di Maria Sole Tognazzi. Al centro una storia di omosessualità.
«Mi piace tantissimo Margherita e mi sono trovata al meglio con Maria Sole. Adoro lavorare con le donne. Il mio staff è tutto al femminile. Ho un ufficio stampa donna, una truccatrice donna, un archivista donna. Le donne quando hanno una testa sono le creature più intelligenti al mondo».
Il film non è ancora uscito ma fa già discutere. Viene considerato un tema forte da portare sugli schermi.
«È un tema. Punto. Non si può combattere l’omofobia se ogni volta che la trattiamo dobbiamo sottolinearne la diversità dal viver comune e considerarla come qualcosa a parte. Giudichiamo senza sforzarci di capire e, sopratutto, di comprendere. E così finiamo per dividerci su tutto, anche sulla normalità. Sì, abbiamo il pessimo vizio di standardizzare il concetto di normalità. O rientriamo in quei canoni imposti o siamo altro. È ora di abbattere certe barriere mentali, certe ottusità culturali, falsi bigottismi e moralismi. Occorre più coraggio. L’omosessualità è un tema, esattamente come la convivenza o l’eterosessualità. Civiltà è anche smettere di definire scottanti determinate tematiche. Dovremmo iniziare a non montare sempre dei casi sul nulla, ma piuttosto prendere una posizione di condanna ogni volta che si mette al centro di una persecuzione immotivata un bambino o un anziano indifeso, un eterosessuale o un gay. Senza distinzione. Condanniamo i soprusi e il resto lasciamolo vivere in pace»
Tu detesti i luoghi comuni.
«Faccio di tutto per restarne lontana. Li detesto, ma l’Italia ne è piena. Impossibile scegliere il peggiore, ce ne sono talmente tanti... Siamo malati di moralismo e non ci rendiamo conto di quanto siamo ipocriti. Penso, per esempio, a un certo modo di essere bigotti. Andare a Messa senza credere non è sinonimo di personalità ma significa essere una doppia carogna: imbrogli te stesso e prendi in giro un luogo sacro. Figurati io... Sono cresciuta bersagliata dai luoghi comuni. Non mi hanno fatto mancare nulla e li ho pagati tutti. Ma fregandomene e andandomene sempre a testa alta. La cocca della sinistra, la bella per ogni occasione, quella troppo emancipata... Già, come se stare tutto il giorno in casa invece fosse la prova certa che non cornifichi. Ma per favore... Ecco, io da tutti questi benpensanti sto alla larga».
A distanza di 15 anni il tuo calendario sexy per Max e il tuo spogliarello al Circo Massimo per lo scudetto della Roma restano due buoni motivi per cui vale la pena vivere?
«E che scherzi? Certo che sì. Ricordi straordinari. La notte giallorossa rimane la più bella della mia vita. Un milione di persone tutte lì a festeggiare e ad aspettarmi. E quando mai mi ricapita? Manco il Papa ha visto per lui una folla così tutta in una volta. E invece io, miserabile... Un milione... Ma ci pensi?».