Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 14 Giovedì calendario

MASSIMILIANO ALLEGRI

MASSIMILIANO ALLEGRI–

Massimiliano Allegri è stato l’uomo di ogni mese. Lo è di questo più che di ogni altro, perché ha chiuso una missione. La sua. Ha vinto. Di più: ha sconfitto lo scetticismo sconfinato nell’odio con cui era stato accolto alla Juventus. Non piaceva al pubblico: il giorno della sua presentazione a luglio 2014 fu accolto da 289 tifosi che lo insultavano e prendevano a calci la macchina che lo trasportava nel centro di allenamento della Juventus, a Vinovo.
Non ci sono più, quei tifosi. O se ci sono si confondono con gli altri che oggi lo riconoscono come loro, che lo amano, che lo stimano. Ha vinto lo scudetto, ha portato la Juventus in un posto tra le prime quattro d’Europa dopo 12 anni. Ha soprattutto sconfitto il fantasma di Antonio Conte che l’aveva preceduto sulla panchina della Juve e che aveva lasciato un ricordo unico. Dov’è Conte adesso? In nazionale, quasi rivale della Juve, perché il suo modo totalizzante di essere commissario tecnico non può conciliarsi con le esigenze di un club. Allegri ha fatto meno punti di Conte, ma ha portato la Juventus dove Conte non era riuscito. Ovviamente c’è molto del predecessore nei risultati ottenuti dall’allenatore juventino. Allegri l’ha riconosciuto segnando così un altro punto a suo favore.
Così Antonio Conte è passato da eroe a capitano che abbandona la nave, Allegri da indegno successore a condottiero. Una rivincita completa che non si spiega con i numeri. È stato l’atteggiamento, è stata l’intelligenza, è stata la comunicazione: Allegri s’è preso il suo presente e il suo futuro non facendo paragoni. Ha preso la squadra ereditata da Conte con tre anni di vittorie e non l’ha stravolta. Benitez che arrivò all’Inter dopo la stagione da fantascienza di Mourinho (scudetto, coppa Italia e Champions League vinte) chiese al club di rimuovere ogni singola immagine del suo predecessore. In campo idem. Allegri no: s’è adeguato lui, è entrato lui nel sistema senza l’idea di trasformare un gruppo consolidato in qualcosa che assomigliasse a ciò che lui aveva in testa. Ha parlato poco, ha riconosciuto i meriti altrui, ha chiesto di non metterlo a confronto. S’è preso la Juve a pezzi: prima facendosi accettare, poi integrandosi, poi cambiandola (poco) per sentirla più sua.
Come ha scritto Franco Ordine qualche giorno fa sul Giornale: «Il livornese Allegri, fumantino per definizione e attaccabrighe dichiarato, ebbe la forza di resistere a ogni tentazione polemica e di presentarsi in punta di piedi. Senza promettere ribaltoni o rivoluzioni, tacendo di piani e programmi che avrebbe svelato con il tempo, vestendo il saio del frate trappista e mettendosi subito al lavoro».
Sono spariti tutti i titoli di giornale che avevano preceduto il suo insediamento sulla panchina bianconera. «Ma Allegri sarà capace di gestire la pressione mediatica? Questa è la Juve». «Ma sarà in grado di vincere come ha fatto Antonio Conte?». «Ma possiamo affidare un’armata a un allenatore esonerato dal Cagliari?». «Ma cosa dirà Pirlo quando se lo vedrà davanti dopo la lite ai tempi del Milan?».
Allegri ha vinto prima di tutto dentro e poi fuori. Ha vinto per sé e ha vinto anche per chi l’ha scelto. Perché a luglio 2014, in quella macchina che entrava a Vinovo tra gli insulti c’erano anche i dirigenti bianconeri. E c’era idealmente anche Andrea Agnelli, il presidente che Allegri l’ha voluto. Simbolo di una nuova generazione familiare, ma pure nazionale. A meno di 40 anni ha vinto il quarto scudetto consecutivo della sua gestione: nella storia del club bianconero ha fatto meglio soltanto suo nonno Edoardo, arrivato a cinque. «Andrea Agnelli – ha scritto Tony Damascelli – ha avuto il compito difficilissimo di risistemare un’azienda traumatizzata dallo scandalo di Calciopoli, dilaniata anche da lotte interne, devastata nei conti, intossicata da alcune operazioni di mercato al limite dell’incoscienza e ignoranza (si ripensi soltanto ai 50 milioni di euro spesi per Felipe Melo e Diego). Ha scelto di avvalersi di collaboratori non di moda ma di perizia come Giuseppe Marotta e Fabio Paratici, rinfrescando lo staff manageriale, ribadendo, con il proprio cognome, la continuità della tradizione. Il fatturato della società sta per superare i 300 milioni di euro, vanno affrontate alcune sofferenze di bilancio ma le prospettive sono rassicuranti e riportano il club tra i grandi del continente. Allegri venne scelto nel brevissimo giro di dodici ore, dopo le dimissioni impreviste di Conte. Allegri ha trovato immediate affinità con Andrea Agnelli e con Marotta e Paratici: ecco la squadra, ecco il valore aggiunto di un club che è cambiato rimanendo uguale a se stesso. Chi conosce la storia vera e non la semplice cronaca della Juventus sa benissimo che vestendo quei colori ed entrando in quel gruppo, si ritrovano riferimenti difficili da reperire altrove. Ovviamente gli oppositori se la spassano, ripensando ai mille casi che hanno portato la Juventus a essere la madre di tutti i corrotti e corruttori, dei ladri e dei faccendieri, in un mondo, invece, abitato soltanto da angeli custodi».
Allegri è entrato in un mondo che non conosceva se non da avversario. Ha chiesto permesso, s’è accomodato, ha lavorato, ha avuto appoggio da chi doveva appoggiarlo. Il resto l’ha fatto da sé. Non se l’aspettava nessuno, forse. Quel forse era lui.