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 2015  maggio 13 Mercoledì calendario

QUESTA PULCE È MEGLIO ’E PELÈ!


[Lionel Messi]

Barcellona (Spagna), maggio
A vederlo giocare, Lionel Messi, vien da pensare che non sia proprio un uomo. Sembra una macchina telecomandata, di quelle della Playstation, che accelera e cambia direzione all’improvviso. Contro il Bayern ha fatto un gol così, che ha fatto il giro del mondo, facendo finire a terra il difensore che lo marcava, Boateng. Poi, per spiegarlo, ha parlato come un marziano: «È stato un attimo. Ho pensato che lui si spostasse a destra, guardando il mio piede, e mi sono buttato dall’altra parte». Si può fare tutto questo in un attimo? Quando aveva 4 anni e il papà Jorge Horacio lo faceva giocare contro i bambini più grandi lo chiamavano «la macchinetta dell’87», perché non ci credeva nessuno che fosse nato proprio quell’anno, nell’87, quel piccolino che si spostava a scatti improvvisi come se lo facesse da sempre. Dicevano: «Questo è mica normale». Il marziano del calcio, però, è un marziano strano. Nell’agosto del 2011 l’hanno visto per la prima volta alla tv, in campo, durante una partita, mentre si piegava e si contorceva per un conato di vomito. Da allora è capitato un mucchio di volte. Lui ha detto che ne soffre anche quando è a casa: «Mi succede durante le partite, durante gli allenamenti, e pure in famiglia. Non so cosa sia, ho fatto migliaia di analisi, ma niente. Quando succede cerco di prendere una pastiglia e mi passa. Sul campo, invece, mi capita improvvisamente. Mi vengono i conati, poi appena vomito mi passa tutto».
Il fatto è che Lionel Messi non è solo strano come marziano. È strano persino come uomo. Sempre nel 2011, per renderlo più umano, gli organizzarono una incredibile operazione di marketing inventandogli un flirt con una sedicente ballerina, Xoana Gonzalez, che avrebbe conosciuto a un mega party organizzato a Buenos Aires proprio da lui, in una serata bollente tra fiumi di alcol e cumbia.
In realtà, Lionel Messi, è fidanzato da quando ha 19 anni con la stessa ragazza che conosceva da quando ne aveva 5, Antonella Roccuzzo, argentina come lui, di Rosario, ma di origini calabresi, figlia di un imprenditore nel ramo dei supermercati e di una casalinga, che vive con lui e con Thiago, il bambino che gli ha dato, a 200 chilometri da Barcellona, in un sobborgo lontano dai riflettori, senza mai frequentare nessuno.
Nessuno riesce neanche a fotografarli. L’ultima uscita mondana è del luglio 2013, al matrimonio di Iniesta. Lei appare solo al Camp Nou per le sue partite. Lo vuole lui perché dice che «è il mio talismano».
Se no niente. Antonella è come il compagno che l’ha scelta da quando si vedevano all’asilo: una moglie silenziosa.
Il marziano del pallone era il figlio di un operaio delle acciaierie, e di donna Maria, che faceva la donna delle pulizie per farlo sognare e che gli diceva sempre che «nella vita bisogna vincere, bimbo mio». E Gerard Piqué, suo compagno di squadra nel Barcellona, dice che non vorrebbe mai essere nei panni di sua moglie quando perde una partita: «Sta muto per giorni interi, e non si capisce bene se è disperato o arrabbiato, perché è impossibile farlo parlare». Pure quand’è normale. Messi non è uno che spreca molte parole. Il giorno che gli consegnarono il primo Pallone d’Oro gli chiesero se parlava inglese. «No». «Beh, dica solo thank you allora». «No». Non disse niente davvero. Ma la notte fece le 4 del mattino giocando alla Playstation con i figli di Crespo.
Il marziano che vomita, ha letto solo due libri in vita sua, senza neanche finirli: la Bibbia e la vita di Maradona. Mangia come un alieno: pizza, arachidi con cioccolata e Coca-Cola. Gli davano frullati di vitamine e lui li sputava perché gli facevano schifo. Solo Pepe Guardiola, l’allenatore di quel Barcellona, riuscì a convincerlo: «Devi fare così. E basta». Messi tacque. Ma lo fece. Gerard Piqué se lo ricorda bene la prima volta che lo vide in squadra: «Mi arrivava alla vita. Era muto. Gli chiesi: dove giochi? Enganche. E io: enganche?». Significa «trequartista» in slang sudamericano. Non lo capiva nessuno. Era timido e si vergognava. Cesc Fabregas, altro suo compagno di squadra, adesso finito in Inghilterra, disse: «Aveva i capelli lunghi e stava zitto. Pensai: questo qua è tempo sprecato». Non è l’unico ad aver pensato così di lui. Nel 2002 il Como di Preziosi gli fece un provino e lo scartarono perché era troppo gracile: «Questo nanerottolo qua si rompe subito».
E quand’era solo el pique, il piccolino, come lo chiamavano in Argentina, a 11 anni, gli diagnosticarono una forma di ipopituitarismo, e siccome le cure costavano tanto, 900 dollari al mese, nessuna squadra del suo Paese voleva caricarsi queste spese.
Fu per questo che dei suoi cugini che vivono a Lleida, in Catalogna, andarono da Carles Rexach, il direttore sportivo del Barcellona, con un video in cui lui faceva la foca: 118 palleggi con l’arancia, 140 con una palla da tennis, 29 con una pallina da ping pong. Carles disse: «Ma questo è un giocatore?». Andò lo stesso in Argentina, senza portarsi dietro niente, però, perché non era troppo convinto. Poi quando lo vide sul campo lo portò fuori al ristorante e gli fece subito firmare un contratto su un tovagliolo.
Ma questo è uno strano marziano. A Barcellona gli manca la mamma e piange spesso, da solo. Adesso che gioca con gli uomini ed è diventato un po’ più grande s’è fatto tatuare tutto il braccio destro: ci sono la riproduzione dell’ornamento di una finestra della Sagrada Familia, un orologio, simbolo del tempo che passa, un fiore di loto a rappresentare le cose che crescono nei luoghi più aspri, una cartina del Sudamerica, una dell’Europa, e un rosario a forma della sua città, Rosario, appunto. Ma il primo tatuaggio della sua vita se l’era fatto fare sulla schiena quand’era un ragazzino solo a Barcellona, che piangeva di nascosto nella sua cameretta. C’era il volto di sua mamma. Se non è un marziano, un po’ ci assomiglia.
Pierangelo Sapegno