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 2015  maggio 14 Giovedì calendario

L’ECONOMIA DIPENDE DALL’UOMO

[Intervista a Fabrizio Pezzani] –
Condivide le sue riflessioni di economista fuori dal mainstream con intellettuali come Noam Chomsky o Emanuele Severino. Quello stesso mainstream in cui stanno docenti del suo stesso ateneo, economisti neoclassici, come Alberto Alesina, Francesco Giavazzi.
E anche la definizione di economista gli va stretta, perché Fabrizio Pezzani, parmense, classe 1948, svolge una critica puntuale al pensiero economico à la page, «che si è dimenticato dell’uomo e pretende d’aver creato una scienza esatta» e lo fa attingendo alla filosofia, alla sociologia, alla politologia. Ma non immaginatevi uno ieratico keynesiano: Pezzani, ordinario di Economia aziendale alla Bocconi e che insegna «Altruismo creativo» nell’ateneo di Parma, è anche vicepresidente di Cariparma-Crédit Agricole.
Domanda. Professore, nei suoi libri e articoli spiega che l’economia, da strumento per rispondere ai bisogni, s’è trasformata in scienza finalistica. È diventata cioè fine essa stessa. Come è potuto accadere?
Risposta. La prendo alla larga, posso?
D. Prego.
R. Mi sono occupato per molti anni di programmazione e controllo delle Pubbliche amministrazioni e, nelle mie ricerche, ho osservato che nel Sud del nostro Paese?
D. Che cosa ha visto?
R. Che, pur aumentando i trasferimenti, la diseguaglianza non diminuiva, anzi, cresceva, così come il disagio e la criminalità, mentre diminuiva il reddito pro-capita. Ossia si otteneva il risultato opposto a quello ricercato, insomma l’economia, da sola, non risolve il problema ma sembra aggravarlo.
D. Chiarissimo, sin qui.
R. Osservando Sud e Nord, in Italia, si vede una differenza sostanziale: quella di capitale sociale. Nel Settentrione si trovano espressione di solidarietà, volontariato, banche cooperative, fondazioni. Nel Mezzogiorno il fenomeno è più marginale.
D. E quindi?
R. Proprio dove c’è capitale sociale intenso, si riscontra anche maggior deposito bancario e maggiore Pil. Dunque è la buona economia che genera la buona società o viceversa?
D. Direi viceversa: la buona società genera buona economia. Ma prosegua.
R. Non si può studiare l’economia se non si studia la storia dell’uomo perché i fondamentali della natura umana sono indispensabili per capire la storia nel suo divenire ed il legame tra passato e presente, «la storia si ripete» diceva Gian Battista Vico.
D. E invece?
R. Invece il pensiero unico tecnico-razionale guarda solo il futuro ed ignora la dimensione della soggettività umana che determina sempre le sue scelte. Un Paese è il risultato di secoli.
D. Qual è la relazione fra quella dimensione e l’economia?
R. Società ed economia non possono essere studiati indipendentemente. I mercati, specie quelli finanziari, non sono asettici, ma il loro andamento dipende dai soggetti, le persone, che vi lavorano mossi dal perseguimento di interessi particolari. Per capire l’andamento dei mercati è necessario capire gli interessi di quelli che vi operano, specie se possono manipolare le informazioni.
D. A cosa si riferisce?
R. Alle banche d’affari sono state condannate dal dipartimento di Giustizia Usa, per manipolazione fraudolenta degli immobili che hanno determinato la crisi dei sub-prime. In altri termini, se la roulette è truccata, bisogna guardare il croupier
D. Che significa, professore?
R. Il pensiero neoliberista ha affermato la massimizzazione del risultato del singolo a costo di normalizzare comportamenti illeciti ma l’ottimo del singolo non coincide mai con quello del sistema.
D. Questo pensiero fa leva sulla competizione.
R. Una competizione distruttiva: se si persegue l’interesse personale a scapito degli altri, si afferma un individualismo spietato che, nel tempo, distrugge i legami sociali. Gli Usa e la Gran Bretagna, che hanno cavalcato il modello neoliberista e la finanza senza limiti, sono l’evidenza della fallimento sociale di quel modello.
D. Ma come, se ormai appaiono fuori dalla crisi?
R. La crisi è antropologica: quel modello culturale non è in grado di rispondere in modo innovativo alle sfide della storia e questo vale per tutti noi, anche se in modo diverso. Se non trovano un nuovo paradigma che consenta di ridurre le tensioni sociali e le disuguaglianze, sono ad alto rischio e anche la crescita del Pil non serve, perché il sistema fiscale non consente la redistribuzione e ha paradossalmente un’utilità negativa.
D. Con quali conseguenze?
R. Nella storia dell’uomo le società saltano sempre per classe o per guerra, è sempre stato così. Ancora una volta Vico aveva visto giusto.
D. Quando il modello dell’American dream è sfumato?
R. Se lei osserva il grafico di Putnam sul capitale sociale di intensità relazionale nel secolo scorso, vedrà che quel capitale è stato alla base della ricostruzione postbellica, con crescita imperiosa tra gli anni 1942 – 72, periodo in cui la disuguaglianza era molto bassa.
D. E dopo, che è successo?
R. La crescita del neoliberismo ha prodotto disuguaglianza ed eroso il capitale sociale. Siamo alla questione di prima: non si risolvono i problemi solo con l’economia, se non si ricostruisce un sistema di relazioni sociali forti. Il capitale sociale è alla base del capitale economico non viceversa; ma la solidarietà non è nella natura dell’uomo
D. Torniamo all’America. Le date che citavano prima, coincidono con la fine dell’epopea kennediana. Dopo che succede?
R. Con l’arrivo di Richard Nixon, l’America cambia pelle: l’associazionismo muore e si è produce una divaricazione enorme fra ricchi e poveri: fra il 1972 ad oggi .
D. In pratica, che cosa è accaduto?
R. La società americana ha cambiato modello: dal modello sociale dei Kennedy è andata verso la concentrazione della ricchezza, giustificando il mantra «più cresce l’economia più migliora la società». Sono andati contro la storia dell’uomo, proprio coloro che avevano dichiarato guerra all’Impero britannico, per la sua esosità fiscale
D. È lì che entra in gioco la finanziarizzazione dell’economia?
R. Sì perché, se il fine è la massimizzazione della ricchezza, la finanza è il mezzo più idoneo dell’economia reale e così la finanza viene posta sopra quest’ultima. La moneta, però, non crea moneta ma se il fine non cambia, i mezzi si adattano.
D. Le conseguenze quali sono state?
R. Sono sotto gli occhi di tutti. La concentrazione di ricchezza e la sua stratificazione verso l’alto hanno fatto crollare la classe media, il lievito della civiltà occidentale. Oggi questo modello ha effetti distorsivi e destabilizzanti: giovani, che hanno fatto le business school, si trovano a fare i camerieri, e il debito contratto da migliaia e migliaia di loro per frequentare le università è ormai arrivato all’8% del Pil. Ma non basta.
D. Che cos’altro c’è?
R. Il perseguimento della rendita finanziaria ha spinto alla delocalizzazione: nel primo decennio di questo secolo è andato all’Estero il 40% delle attività manifatturiere. Oggi la manifattura statunitense vale appena l’11% del Pil, mentre il 22% è fatto di carta, ossia di derivati, credit swap eccetera. E senza manifattura, un Paese crolla.
D. Ma quell’economia, come dicevo prima, dà oggi evidenti segni di ripresa.
R. Non è esattamente così, hanno troppa moneta che non risponde al valore reale
D. Qual è stata la responsabilità del pensiero neoliberista?
R. Portare la finanza sopra l’economia è stata un’operazione magica, ma, per farla, si doveva ammantarla di verità incontrovertibili. Ecco allora che si è cominciato a dare i Nobel a personaggi come Robert Lucas.
D. Quello che ha teorizzato la razionalità dei mercati?
R. Premiato nel 1995: i mercati sono razionali e non sbagliano mai nell’allocazione delle risorse. A parità di informazione, sosteneva, gli operatori decidono allo stesso modo. A parte che vuole dire la negazione del libero arbitrio, ma poi, dato che nella finanza piccolo non è bello, aumentano le posizioni di monopolio-oligopolio e salta la simmetria informativa.
D. Insomma, i mercati non sono così razionali...
R. No e, per capirli, bisogna interpretare gli interessi di chi è in grado di manovrarli. Valori come lo spread e rating hanno troppo spesso andamenti anomali che coincidono con fatti storici o decisioni di carattere geopolitico, in questo modo la finanza ha assunto anche il ruolo di arma per orientare i processi decisionali dei singoli Stati.
D. Con gli spread l’Europa è stata messa alle corde.
R. Quella che chiamo «campagna d’Europa del 2010-2012» è emblematica di come la verità scompaia dietro le notizie e dal ruolo dei mercati finanziari, che nascondono la verità latente che sta dietro.
D. Una campagna mirata a cosa?
R. Venne pianificata per ridurre il valore dell’euro, che stava diventando pericoloso per la tenuta del dollaro. Tutto cominciò nel 2010, con il declassamento della Grecia da parte di Standard & Poor, che è fra le condannate dal dipartimento di Giustizia americano, per manipolazione fraudolenta del rating nell’agosto del 2012 in Usa, due mesi prima delle elezioni presidenziali.
D. Poi, il downgrade toccò ad altri.
R. Seguirono il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna. Quindi, nel 2011, venne il tempo dell’attacco ai Btp italiani, che portò al cambio di governo, caduto per la pressione di uno spread che era andato a 600 punti base contro i bundt tedeschi, avendo 1.850 miliardi euro di debito.
D. Oggi è molto più basso.
R. È sceso a 95, mentre il debito ha raggiunto quota 2300: una palese contraddizione alla razionalità dei mercati che dà evidenza al ruolo della finanza nelle decisioni politiche di singoli Paesi. Quel governo era, forse, meno funzionale a interessi anche esterni al Paese.
D. Insomma, una crisi pilotata?
R. Una crisi che ha componenti di dolosità: il neoliberismo ha scardinato il potere dalla politica e il capitale dai Paesi, inaugurando una fase di conflitti che rischiano di portarci di nuovo al caos.
D. Scusi se insisto: perché oggi i nostri spread sono così bassi?
R. Ognuno provi a rispondersi: sono i mercati razionali o sono interessi diversi che non riusciamo a capire? Troppe cose non tornano nel quadro globale che abbiamo davanti , sembra quasi un monòpoli in cui una partita che sembrava chiusa sembra riaprirsi
D. Chi si oppone al pensiero unico?
R. Il pensiero unico non ammette contradditorio e alternative. E oggi la religione rappresenta un pericolo perché il ritorno alla spiritualità rischia di riportare l’uomo al confronto con se stesso e a provare a capire il senso della sua vita.
D. La Chiesa cattolica?
R. Il messaggio di Papa Francesco è di una portata umana altissima e ha la capacità di fare aprire i cuori al sentimento.
D. C’è solo lui?
R. Da un punto di vista più materiale, il ritorno alla Guerra fredda, un repertorio di archeologia storica, dimostra la mancanza di creatività del pensiero unico e, anche qui, viene ripresa la Russia di Vladimir Putin come nemica.
D. Torna la Guerra fredda, dunque ha di nuovo ragione Vico...
R. La storia ce lo dimostra: non ci sarà pace fino a quando non si riuscirà a capire che non vi può essere sviluppo economico se questo non è fondato sullo sviluppo sociale. Sembra però che l’homo sapiens non sappia mai imparare dalla propria storia.
Goffredo Pistell, ItaliaOggi 14/5/2015