Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 14/5/2015, 14 maggio 2015
ABETONE
Sono passati tre quarti di secolo da quando un gregario-ragazzino, che si chiamava Fausto Coppi, proprio qui sull’Abetone, abbandonò il suo capitano Bartali e dopo una fuga solitaria di cento chilometri conquistò la sua prima maglia rosa. Era un primo passaggio di consegne tra il vecchio leone e il giovane airone, anche se tra loro c’erano solo cinque anni di distanza. C’è qualcosa che, ancora oggi, il ciclismo può insegnare alla società. È il valore dei «padri», intesi non in senso genetico ma in senso per così dire culturale. Non so in quante altre discipline resiste quel rapporto di dare e avere tra le generazioni che è vivissimo nel ciclismo, il vero motore di uno sport che conserva, nonostante tutto, valori antichi. Si incontra l’avolese Paolo Tiralongo, che a 38 anni ne ha viste di tutti i colori, e ti dice che se pedala ancora è per mettere la sua esperienza al servizio del ventiquattrenne Fabio Aru: «Sono un gregario vecchio tipo, un portatore di borse che deve insegnare qualcosa: a Fabio ho detto di dimostrare quello che vale sulla strada senza tante parole. Lo sto crescendo, faccio più giorni con lui che con mia moglie... Deve imparare a essere il leader di un gruppo che quando va avanti gli altri devono tremare. E poi devo tenerlo calmo, non vuole perdere un minuto…». Con Cunego è andata diversamente, Damiano forse ha vinto troppo presto: «A lui ci tenevo — dice Tiralongo —, ma ha un carattere che dipende da come si sveglia al mattino...». Le squadre migliori si fanno bilanciando le età. Non tutti giovani e non solo anziani. Cunego è passato in fretta dall’essere, alla Saeco, un eterno ragazzo, con il maestro dei maestri Beppe Martinelli, al ritrovarsi, superati i 33 anni, a sua volta maestro in una squadra di «allievi» che pendono dalle sue labbra. Alessandro Petacchi ha finito di volare al traguardo sotto le ali di sua Anzianità il patriarca Giancarlo Ferretti, ma non per questo a 41 anni è stato mandato in pensione: ora dirige l’orchestra di una squadretta che deve maturare. E non ci sarebbe il ventiduenne Davide Formolo, che ha vinto spavaldamente la quarta tappa del Giro, se non ci fosse Ivan Basso: il ragazzo è cresciuto all’ombra del suo mito (per la verità non sempre esemplare) ed è stato il suo mito a segnalarlo alla Cannondale. L’esercizio dell’ammirazione è il fuoco che alimenta la volontà e la fatica: imitare, emulare il campione, ascoltarlo, rubargli il mestiere e i segreti. Ne sa qualcosa il team manager Gianni Savio che ieri, dopo la tappa dell’Abetone, girava impettito: i suoi ci hanno provato, come vuole lui, attaccare e soffrire, dice: «Sono contento perché vedo che i miei ragazzi mi seguono». Ci sono personalità più burbere, come quella dello zio Bruno (il settantenne Reverberi) che mette il rispetto dei ragazzi al di sopra di tutto. E se non capiscono è pronto a urlare, come farebbe un padre di famiglia vecchia maniera. Per vincere il complesso di Telemaco e per rimettere in piedi gli sdraiati, il Giro sarebbe un’ottima scuola .