Marco Vitale, il Fatto Quotidiano 12/5/2015, 12 maggio 2015
GLI ITALIANI NON SONO STUPIDI: LE SCIOCCHEZZE NON LE BEVONO PIÙ
L’Italia è sempre più spezzata in due. Da un lato i governanti che continuano a trattare gli italiani come cretini e cercano di far loro bere tante balle. Dall’altro gli italiani che, nell’insieme, sono tutt’altro che cretini e sono molto realisticamente legati ai fatti. È la riflessione che emerge spontanea leggendo una seria rilevazione sul “sentiment” degli italiani. Alle parole: paura, frustrazione, rabbia, incertezza, gli intervistati associano rispettivamente le seguenti percentuali: 18%, 24%, 57%, 68%. Alle parole: fiducia, forza, felicità, sicurezza, associano invece le seguenti percentuali: 11%, 2%, 0%, 1%. La fiducia nella politica è ai minimi storici (governo e Parlamento 19%; partiti politici 12%). La stessa sensazione è suggerita dalla lettura dei risultati dell’indagine sulla percezione mafiosa promossa dal centro di studi Pio La Torre di Palermo. L’indagine si basa su un questionario tra studenti di tutta Italia tra il 16 e i 18 anni. Questi ragazzi mostrano una straordinaria lucidità e consapevolezza. Il 71% ritiene che lo Stato non faccia abbastanza per sconfiggere le nostre mafie e il 52,69% ritiene che le mafie siano più forti dello Stato. Quasi il 70% ritiene che la corruzione della classe politica locale sia la causa principale della diffusione delle mafie nelle regioni.
Tra le misure da mettere in pratica lo Stato dovrebbe, per il 24% degli studenti, “colpire la mafia nei suoi interessi economici”, “combattere la corruzione e il clientelismo” (21,79%), “educare i giovani alla legalità” (17,79%), “potenziare il controllo del territorio” (15,16%).
I risultati mostrano con chiarezza che i nostri figli ci guardano e hanno un’idea precisa della realtà. Non si tratta di arrendersi, di essere “gufi” come dice il bulletto fiorentino. Si tratta di gente che sa prendere le misure reali dei problemi reali e che coltiva la “parresia” greca, cioè la verità come premessa di una buona politica.
Sono certo che l’Italia ce la farà, ma non attraverso le bugie o le favole. Le statistiche sono implacabili, come ha testimoniato il Governatore della Banca d’Italia Visco, che in un incontro alla Luiss non se l’è sentita di raccontare balle ai giovani e ha detto che rischiamo una “disoccupazione di massa”. Alimentiamo, dunque, la speranza ma non la spensieratezza e con la consapevolezza che stiamo sempre correndo sull’orlo del baratro. Tra il 2007 e il 2014, nonostante tutti i bla bla che abbiamo sentito, il debito globale del mondo, lungi dal diminuire, come hanno cercato di farci credere, è aumentato da 142 a 199 mila miliardi di dollari. L’Italia è nella parte alta della classifica al 12° posto. E molti dei parametri finanziari che ci hanno spaventati e preoccupati nel 2008 e 2009 sono sempre con noi, in parte peggiorati.
La grande recessione non ha solo messo a dura prova la gestione quotidiana e la sopravvivenza delle nostre imprese e molte, in numero abnorme, le ha fatte scomparire. Ma ha posto con forza temi fondamentali sulla natura delle imprese, sui principi che le reggono, sui rapporti impresa-società. Lo sconquasso è stato tale da legittimare la domanda: come è possibile che l’ossatura delle nostre medie imprese sia sopravvissuta nonostante tutto? Forse perché hanno una tale sfiducia nei centri di comando che non hanno mai dato loro retta. La sfiducia come autodifesa. E oggi che riemergono spunti positivi effettivi, come diminuzione del prezzo del petrolio, rivalutazione del dollaro e di altre monete di mercati di sbocco delle nostre esportazioni, la resistenza da parte delle nostre imprese esportatrici è di conforto. Ma non basta un recupero congiunturale. L’impresa italiana deve fare un salto di qualità sul piano intellettuale e comportamentale, uscire da questo doloroso e lungo travaglio, essere migliore, più forte, più adatta ai nuovi tempi. E per questo deve crescere qualitativamente su vari fronti.
Il compito al quale l’impresa è chiamata è, dunque, molto elevato. E da sola non ce la può fare. È indispensabile che si realizzino incroci di culture diverse, perché è solo da incroci di questo tipo che può nascere un nuovo progetto di sviluppo economico e civile. Tra questi incroci è certo fondamentale la ricomposizione unitaria della concezione dello sviluppo economico nella quale convergano le varie branchie dell’economia, sia quelle della macroeconomia sia quelle della microeconomia.
Marco Vitale, il Fatto Quotidiano 12/5/2015