David M. Ewalt, Wired 11/5/2015, 11 maggio 2015
ASSALTO ALLA REALT
È buio, nella stiva del Sevastopol, e l’atmosfera mette i brividi. Mentre cammino tra le montagne di casse, un rumore mi fa venire un colpo al cuore. Mi dico che era solo un gocciolare d’acqua. Non dovrei aver paura, è solo un videogioco – una demo di Alien: Isolation. Però ho indosso Oculus Rift, un visore per la realtà virtuale, e il gioco occupa interamente il mio campo visivo. Quando giro la testa, il mondo si muove con me. Sembra tutto maledettamente reale, come se fossi su una vera stazione spaziale, braccato da una delle creature che braccavano Sigourney Weaver.
Un altro rumore, e un pesante portellone blindato si apre. L’alien mi raggiunge, mi afferra, le sue fauci puntano la mia faccia. Raggelato, lancio un gridolino di terrore. Alle mie spalle – ma stavolta nel mondo reale – sento ridere. Palmer Luckey, il creatore di Rift, mi stava osservando di nascosto mentre giocavo. «Non è durato molto a lungo», ridacchia.
Luckey ha cominciato a immaginare di poter giocare così fin dall’infanzia. Ha cominciato a costruire visori per la realtà virtuale a 16 anni. A19 anni ha fondato Oculus VR. A 21 anni l’ha venduta a Facebook per 2 miliardi di dollari, nonostante non avesse alcun profitto, e nemmeno un prodotto commerciabile – Oculus era poco più di un prototipo. E adesso, a soli 22 anni, Palmer Luckey è sul punto di realizzare quello che generazioni di tecnologi prima di lui hanno tentato invano di fare: di portare la realtà virtuale alle masse.
Se siete scettici, è perché probabilmente non avete ancora provato il Rift. Mark Zuckerberg l’ha descritto come una nuova piattaforma di comunicazione, sul livello della telefonia o della televisione. «Crediamo che un giorno questo tipo di realtà immersiva e aumentata entrerà a far parte della vita quotidiana di miliardi di persone», ha scritto in un post su Facebook. «Sentendoti davvero presente, puoi condividere spazi ed esperienze sconfinate con le persone che conosci». Le applicazioni potrebbero interessare qualunque settore, dal lavoro all’insegnamento a distanza, dai negozi virtuali alle simulazioni mediche immersive.
L’accordo con Facebook ha messo nelle tasche di un giovanotto che a malapena aveva l’età legale per bere alcolici un guadagno netto che Forbes valuta in oltre 500 milioni di dollari. Nessuno nella storia, neppure Zuck, ha mai incassato una somma del genere, a quell’età. In quest’anno Luckey deve dimostrare di essersela meritata.
Il cammino verso questo nuovo mondo è cominciato nella cornice di tante odierne storie di successo, quasi un cliché: un garage in California. Ma Palmer Luckey non era un ambizioso laureato di Stanford o un profugo dot.com; era un adolescente ossessionato, figlio di un rivenditore di auto di Long Beach e di una madre casalinga. I Luckey hanno scelto di non mandare a scuola e di fare studiare a casa il precoce Palmer e le sue tre sorelle. In questo modo hanno incoraggiato i figli a seguire le proprie passioni.
Il ragazzo ha studiato l’opera e si è allenato per diventare un gondoliere canterino, a beneficio dei turisti. Ha giocato a golf, almeno fino al momento in cui un altro ragazzino non gli ha dato una mazzata in faccia fratturandogli la mandibola. Palmer è diventato un esperto degli argomenti più disparati, tanto da essere una specie di tuttologo.
Alla fine, tuttavia, il giovanissimo Luckey ha cominciato a dedicare quasi ogni istante libero ai videogiochi (Chrono Trigger e GoldenEye 007 erano tra i suoi preferiti) o ai film di fantascienza (Matrix e Il tagliaerbe). Queste passioni lo hanno condotto in un unico luogo. «La realtà virtuale ha molto in comune con la fantascienza, e infatti anche se non sei particolarmente interessato al virtuale, ma ti piace la fantascienza, finisci lo stesso per imparare un mucchio di cose», dice Luckey. «È quello che mi è successo. Sono cresciuto pensando che la realtà virtuale fosse una gran figata, e che dovesse esistere davvero, in più di un laboratorio militare segreto».
L’idea degli schermi computer immersivi risale agli anni Sessanta. I primi prototipi erano primitivi, molto ingombranti e costosissimi, costruiti principalmente per usi governativi e militari. Negli anni Ottanta il boom dei pc fece crescere le speranze di arrivare ad avere visori più piccoli e pratici e ispirò l’arte a parlare di mondi virtuali, a partire dal romanzo di William Gibson, Neuromante, pubblicato nel 1984, per arrivare al picco del 1995, quando uscì una dozzina di film su questo tema, tra i quali Johnny Mnemonic e Strange Days.
Però se i film facevano vendere i biglietti, i prodotti non arrivarono. A volte a ucciderli in culla erano i costi eccessivi: agli inizi degli anni Novanta, Hasbro prima di abbandonare il progetto spese almeno 59 milioni di dollari e oltre tre anni per sviluppare una console e un visore che portavano il nome di Home Virtual Reality System. Ancor più spesso a segnare il destino della realtà virtuale erano i problemi tecnici. Nel 1995 Nintendo mise in vendita una console peri videogiochi, Virtual Boy, ma le sue promesse di una grafica 3D risultarono eccessive. Il display tutto rosso del visore, la bassa risoluzione e gli specchi vibranti facevano venire male al collo, capogiri e nausea. Nintendo ne vendette meno di 800mila pezzi.
Ma quando Luckey ha fatto il suo ingresso nell’adolescenza, questa era ormai storia antica. Da sempre curioso, Luckey ha usato eBay per cercare pezzi di hardware VR obsoleti e abbandonati. A poco a poco ha ammassato una collezione notevole; con un colpaccio riuscì a comprare un visore da 97mila dollari per 87 dollari. Per finanziare questi tentativi, imparò da autodidatta i rudimenti di elettronica e racimolò 30mila dollari comprando iPhone guasti, riparandoli e rivendendoli.
Da quelle carcasse fallite, Luckey ha ricavato qualcosa di nuovo. «Stavo modificando molto pesantemente sistemi esistenti, usando nuove lenti, cercando di spostare lenti da un apparecchio all’altro», dice Luckey. «Ho costruito della robaccia veramente di m...». Con il passare del tempo però ha fatto progressi. Nel 2009, a 17 anni, Luckey è entrato al college e ha dedicato il suo tempo libero a costruire il Prl o Prototipo Uno.
Nel settembre 2011 aveva già trovato un lavoro part-time con il pioniere della realtà virtuale Mark Bolas, presso il laboratorio della University of Southern California. Nell’aprile 2012, il diciannovenne Palmer Luckey ha finito di costruire il sesto prototipo della sua attrezzatura VR “casalinga”. E gli ha dato un nome pensando al gap che sperava di colmare, quello tra il mondo reale e quello virtuale: lo ha chiamato Rift. Frattura, incrinatura.
Il successo prodigioso di Palmer Luckey anche pochi anni fa non sarebbe stato possibile: l’incubazione di Oculus ha approfittato di quasi tutti gli startup trend dell’ultimo decennio. Una partenza avvantaggiata grazie all’open source gli ha consentito di cominciare la sua ricerca gratuitamente. Da qui è passato ad attingere al crowdsourcing, conquistandosi un seguito in forum dedicati al tridimensionale come MTBS3D, acronimo che sta per “Meant To be Seen in 3-D”. Ognuno dei sei prototipi di Palmer è stato preparato con l’aiuto di questi tifosi online, e Luckey spesso ha aiutato altri a risolvere problemi tecnici.
Almeno uno di questo forumisti non era un semplice dilettante. John Carmack nel 1991 aveva fondato Id Software; nel decennio successivo è diventato leggendario come programmatore di giochi, tra i quali Quake e Doom. Nell’aprile 2012 ha scritto un post in cui chiedeva aiutava per modificare – un visore Sony. Luckey ricorda: «C’è stata una discussione pubblica sui motivi per i quali sarebbe stato assai difficile fare una cosa del genere... e poi una settimana dopo mi ha contattato con un messaggio privato chiedendomi se poteva comprare o prendere in prestito uno dei miei prototipi».
Luckey gli ha spedito uno dei suoi Rift. Due mesi dopo, in occasione di E3, l’expo di videogiochi di Los Angeles, Carmack ha mostrato con quello una demo di Doom3, cantando le lodi di Rift. La voce si è sparsa rapidamente. Brendan Iribe, a quell’epoca chief product officer di Gaikai, azienda di giochi in streaming, ha incontrato Luckey per una demo, e ne è rimasto così favorevolmente impressionato da offrire un investimento. Nel luglio 2012, con un capitale iniziale di poche centinaia di migliaia di dollari – i soldi di Iribe –, è nata Oculus VR.
Poiché il denaro non gli bastava per portare a termine un prototipo aggiornato, Luckey ha lanciato una campagna su Kickstarter, con l’intento di raccogliere tra gli entusiasti della realtà virtuale 250mila dollari. Quella che è seguita è stata una delle campagne di crowdfunding più fortunate e controverse della storia. Luckey ha offerto un prototipo Rift a chiunque avesse pagato almeno 300 dollari, incentivando così la creazione di software per la piattaforma. Luckey stava raccogliendo denaro e seminando un ecosistema per il Rift.
La campagna Kickstarter ha superato i 250mila dollari in meno di due ore. Il giorno che la raccolta fondi è partita Luckey era a Dallas, in Texas, per presentare demo del Rift nell’ambito dell’annuale convention di videogiochi, QuakeCon. «Non avevamo neppure un cartello, solo un tavolo nero», dice Luckey. «E per l’intero fine settimana c’è stata una fila di gente disposta ad aspettare due ore. È stato lì che mi sono reso conto che la cosa sarebbe esplosa. Alla realtà virtuale sono interessate le persone normali, non solo i nerd ossessionati dalla fantascienza».
Nel giro di un mese Luckey ha raccolto 2,4 milioni di dollari da 9522 sostenitori, molti dei quali si sono inferociti dopo la vendita a Facebook. Amen. La realtà virtuale era diventata una realtà startup. E Luckey, a differenza di molti coetanei fortunati, ha capito di non avere la stoffa del dirigente. Il primo investitore, Brendan Iribe, è diventato ceo. L’evangelizzatore più efficiente, John Carmack, alla fine è diventato chief technical officer. La qualifica di Luckey sarebbe stata semplicemente “fondatore”.
Questo interesse frenetico ha trasformato Luckey in una superstar. Nel giugno 2013 Oculus ha chiuso a 16 milioni di dollari nel secondo round di investimento condotto da Spark Capital e Matrix Partners, con una pre-money valuation di 30 milioni di dollari. Sei mesi dopo Andreessen Horowitz ha condotto un terzo round da 75 milioni di dollari, con una valuation di circa 300 milioni di dollari.
La stima di 300 milioni di dollari del prototipo di un visore realizzato da un ventunenne è parsa a molti esagerata, ma Oculus aveva il vento in poppa. Zuckerberg ha contattato Luckey per conto di Facebook alla sua maniera preferita, una e-mail, e i due ragazzi prodigio hanno legato grazie alla tecnologia e alla fantascienza. Nel gennaio 2014 Zuck è venuto negli uffici di Oculus a provare Rift.
«Abbiamo cominciato a parlare con Zuckerberg perché volevamo mettere in mostra la nostra roba», dice Luckey. «Lui è un grande fan della realtà virtuale, e penso che creda nella nostra stessa visione».
Nel giro di due mesi le due squadre sono arrivate a un accordo, che alla fine ha raggiunto i 2 miliardi di totale, e che comprendeva 400 milioni di dollari in soldoni di anticipo, 300 milioni in incentivi, e azioni FB per arrivare alla somma finale. Luckey si è innamorato della credibilità di Facebook, e della sua potenza di fuoco. «Se vuoi vendere un milione di questi cosi, devi disporre di qualche centinaio di milioni di dollari in contanti per costruirli». Facebook ha anche reso ricco Luckey: Forbes stima che abbia ricevuto più di 500 milioni di dollari, continuando intanto ad armeggiare con il suo prototipo.
Il successo non sembra avergli dato alla testa. Questo capitalista prodigio vive con sette amici (tutti dipendenti di Oculus tranne uno) in una casa condivisa nell’elegante Atherton, che lui chiama “La Comune”, dove passano ore impegnati in grandi tornei di videogiochi come Super Smash Bros. Di solito indossa pantaloni cargo, T-shirt o camicie hawaiane, e di rado porta scarpe – anche quando si infila i sandali, quelli trovano sempre il modo di finire da qualche altra parte. L’unica concessione alla ricchezza acquisita da poco, una Tesla Model S, convive con un furgone GMC del 1986 con la moquette rossa a pelo lungo.
Come aveva già fatto con le sue altre acquisizioni, Instagram e WhatsApp, Zuckerberg ha lasciato a Luckey e alla sua squadra un notevole grado di autonomia. Facebook perlopiù fornisce un supporto amministrativo, finanziamenti e altre risorse, mentre Luckey e il suo gruppo sono liberi di lavorare. «Stiamo facendo proprio le cose che volevamo fare e facevamo, solo che adesso abbiamo molti più mezzi per farle», dice lui.
Gli ultimi mesi, però, Luckey li ha passati essenzialmente per strada. In apparenza sta facendo ricerche e reclutando ingegneri. («In realtà non ho un gran talento nel gestire le persone, però sono bravo nel convincerle a lavorare con me»). In verità sta anche evangelizzando. Avrà anche schivato il destino di ragazzino-prodigio-che-diventa-ceo di Bill Gates e Zuck, però questo figlio di un rivenditore di auto è istintivamente uno showman migliore rispetto agli altri due. Nell’ottobre scorso, in apertura del terzo Forbes Under 30 Summit di Philadelphia, Luckey ha ipnotizzato 1500 tra i migliori giovani imprenditori d’America con un repertorio di battute, movimenti studiati per far ridere (a un certo punto ha finto di fare del kung-fu) e risposte sapide.
Quando gli hanno chiesto delle migliaia di sostenitori in crowdfunding che non hanno ottenuto neanche una briciola dei 2 miliardi di dollari, lui l’ha subito rigirata sulla stupidità dell’eccesso di regolamentazione. «Prendetevela con le norme in vigore, ragazzi», ha concluso, con la platea in delirio.
La prossima sarà la più sensazionale, e ora Luckey è insolitamente reticente, non dice quando uscirà una versione perfezionata, e destinata ai consumatori, del Rift. Persone vicine all’azienda pensano a un debutto nella seconda metà del 2015, e le aspettative a lungo termine sono elevate. Mentre Zuck avverte che potrebbe volerci un decennio per raggiungere una massa critica, e in ottobre ha detto pubblicamente che il Rift «ha bisogno di una diffusione molto ampia, tra i 50 e i 100 milioni di unità» perché si realizzi la visione di una piattaforma informatica alternativa.
C’è già un gran fervore di attività di sviluppo. In testa ci sono i videogame, ovviamente. «I giocatori sono stati i primi ad adottare la realtà virtuale», dice Luckey, «e quella è l’unica industria già equipaggiata per creare mondi in 3D completamente immersivi». Microsoft ha presentato Hololens, un dispositivo compatibile con Xbox One. Sony ha annunciato da oltre un anno di stare lavorando a un visore VR, il cui nome in codice è Project Morpheus.
L’entertainment seguirà a ruota. Lo scorso novembre il regista Danfung Dennis ha lanciato il corto Zero Point, il primo film girato con video a 360gradi, espressamente per Oculus Rift. Next VR, azienda di Laguna Beach (California), ha appena fatto uscire una versione virtuale di una esibizione dal vivo dei Coldplay, e un’azienda che porta il nome di EON Sports sta realizzando un programma di allenamento VR in cui la star è la leggenda del football Mike Ditka. C’è perfino una startup spagnola, VirtualRealPorn, che vende abbonamenti a un sito pieno di video in 3D compatibili con Rift, e promette agli utenti che “vi sembrerà di essere lì” e che sperimenteranno un’immersione extra.
Poi c’è il resto. Gli ingegneri del Virtual Reality Immersion della Ford stanno utilizzando il Rift per esaminare modelli in 3D di auto dal nuovo design. Marriott Hotels di recente ha presentato un’“esperienza di viaggio virtuale” che si avvaleva di Rift e consentiva ai potenziali clienti di avere l’impressione di essere su una spiaggia hawaiana, o nel centro di Londra. E la Defense Advanced Research Projects Agency del governo Usa sta utilizzando il visore come parte di uno strumento di visualizzazione della rete che dovrebbe prevenire gli attacchi cibernetici.
Con tutto questo movimento, il Rift troverà presto un sacco di concorrenti, e molti vorranno diventare l’hardware standard. L’azienda tedesca produttrice di sistemi ottici Cari Zeiss AG ha cominciato da pochissimo a vendere il suo Zeiss VR One. Google, che finora aveva manifestato un interesse maggiore nei confronti della realtà aumentata, l’estate scorsa ha rivelato l’esistenza di un nuovo progetto chiamato Google Cardboard, un kit open source per un visore VR che gli utenti si assemblano da soli. In ottobre, Google ha condotto un terzo round di finanziamenti da 542 milioni di dollari per Magic Leap, startup di Dania Beach (Florida) che sta lavorando su un visore leggero, in competizione con il Rift. E Apple ha pubblicato un’inserzione con cui cercava un ingegnere che «creerà app sofisticate che si integrino con sistemi di realtà virtuale per creazione di prototipi e per test con gli utenti».
Luckey si limita a scrollare le spalle. «Non penso che in questo momento esistano prodotti paragonabili al nostro», dice. Non è una vanteria gratuita. L’ultimo “prototipo” di Rift, che porta il nome di Crescent Bay, offre un’esperienza di realtà virtuale così immersiva che pare di trovarsi davvero in un posto diverso. Una demo, prodotta da Epic Games, presentava un drappello di soldati corazzati impegnati in un combattimento contro un gigantesco robot. L’utente poteva camminare in mezzo al caos, schivare proiettili lenti come quelli di Matrix, alzare gli occhi e vedere un’auto volare sopra la sua testa, girare attorno a un soldato per esaminarne l’armatura, o addirittura chinarsi per guardare nel mirino del suo fucile.
La sensazione è simile a quella che una novantina di anni fa probabilmente si provò nel vedere per la prima volta un televisore. La domanda ora è se Palmer Luckey è il nuovo David Sarnoff, il dirigente che rese popolare la tv e portò la Rca a fare fortuna, o se è invece Philo Farnsworth, l’inventore che fu il pioniere ma finì dimenticato quasi da tutti.
A 22 anni Luckey sembrerebbe comunque contento, in entrambi i casi. «Invece di sentir dire: “Ehi, guarda, quello è il ragazzino prodigio che ha fondato l’azienda”, preferirei vedere un centinaio di aziende di VR, e sapere che hanno venduto un miliardo di visori».