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 2015  maggio 11 Lunedì calendario

LA FORMULA DELLA VIRALIT


Nessuno riesce a immaginare che un vestito possa diventare una delle notizie più lette e condivise sui social network. Eppure è bastato che una foto venisse postata su Tumblr lo scorso 25 febbraio per ottenere 400mila note in 48 ore. Cosa mostrava? Un vestito a righe, con una semplice didascalia: «Per favore, aiutatemi: questo vestito è bianco e oro, o blu e nero?». La stessa domanda, ripresa il giorno dopo in un sondaggio dal sito BuzzFeed, ha raggiunto due milioni di voti in 10 ore (vittoria del team bianco&oro, per la cronaca). Ma come ha fatto un pezzo di stoffa colorata a coinvolgere milioni di utenti? «È qualcosa di apparentemente semplice, su cui chiunque può esprimere un’opinione: alle persone piace far parte di una tribù», spiega Bruno Gonçalves, fisico portoghese che all’università di Aix-Marseilles studia come si diffonde l’informazione in rete. «È un modo per confrontarsi con se stessi e con gli altri», conferma Walter Quattrociocchi, informatico e coordinatore del Laboratorio di scienze sociali computazionali all’Imt di Lucca: «Comunicare il colore che vediamo, in un compito facile, universale, imprevisto e immediato, ci colloca in uno spazio sociale e permette di capire meglio noi stessi». Il fenomeno The Dress, però, è soltanto una goccia nell’oceano di contenuti che ogni giorno si affacciano in rete.
Nell’istante in cui leggi queste righe, infatti, Twitter è invaso da 9000 cinguettii, su Facebook vengono eseguite circa 10mila azioni, quasi 100mila video sono visti su YouTube e 2000 foto sono postate su Instagram. Solo una piccola percentuale di questi contenuti sarà condivisa da più persone e ancora meno saranno in grado di generare quella che viene tecnicamente chiamata una “cascata”, una lunga catena di passaparola. Uno studio di Yahoo! Research ha analizzato la diffusione di contenuti su diversi mezzi online e ha trovato che soltanto l’1% riusciva a diventare davvero virale. Ma perché qualcosa molto condiviso è definito virale? «L’idea è che un messaggio, un’immagine o un filmato si diffondano da persona a persona come un virus durante un’epidemia. Ma ci sono delle differenze, perché i contenuti virali hanno una data di scadenza. Le persone infatti si stufano di leggere la stessa notizia, o di guardare lo stesso video, e smettono di parlarne», spiega Gonçalves.
Inoltre, mentre quando entriamo a contatto più volte con un virus aumentano le probabilità di contrarre l’infezione, vedere ripetutamente la stessa immagine rischia di stancarci in fretta. Insomma, non sei l’unico che alla decima esclamazione «Il vestito è blu e nero!» avrebbe voluto lanciare lo smartphone dalla finestra. Nonostante l’analogia non sia perfetta, il parallelismo con i virus torna utile ai ricercatori, che possono usare gli strumenti teorici dell’epidemiologia e applicarli allo studio dell’informazione in rete. «Un virus può essere definito da tre parametri base: incubazione (quando non è ancora manifesto), latenza (l’intervallo in cui ancora non si trasmette) e infettività (quanto è in grado di diffondersi). Ognuno di questi può assumere valori molto diversi. Possiamo avere, per esempio, un virus a lunga incubazione e alta infettività», spiega Marco Guerini, ricercatore in Linguistica computazionale al Trento-Rise, centro della Fondazione Bruno Kessler e dell’università di Trento. «Una cosa molto simile accade con i contenuti su internet: un articolo facile da leggere porta alla condivisione immediata, uno più complesso a commentare». Non sono considerazioni di buonsenso, ma risultati sperimentali. Grazie alla rete, infatti, gli scienziati hanno un bacino molto ampio di dati cui attingere.
Il gruppo di ricerca di Guerini, per esempio, ha passato in rassegna quasi 29mila post su Google+ per capire quale fosse il segreto delle immagini più virali. Il risultato? La viralità potenziale delle foto rispetto ai testi è di tre a uno: in particolare le immagini animate sono condivise di più, mentre quelle statiche ricevono un maggior numero di commenti e +1. È invece molto più difficile che le immagini in bianco e nero abbiano successo. Altri ricercatori hanno concentrato la loro attenzione sui video, spiegando finalmente perché la rete sia invasa dai cuccioli: «I contenuti online diventano virali quando evocano una forte risposta emotiva, che può essere negativa o positiva», spiega Rosanna Guadagno, psicologa sociale all’università del Texas di Dallas.
Per provare questa ipotesi, il suo gruppo di ricerca ha messo di fronte a 256 persone otto video di YouTube divisi per categorie (disgustosi, carini, divertenti, indignati e neutri), chiedendo quali avrebbero condiviso. Guadagno è riuscita così a creare una gerarchia emotiva dei video virali: le clip più condivise mettevano in risalto un’emozione positiva (i video carini e divertenti), mentre i filmati negativi (disgustosi e indignati) avevano più successo di quelli neutri. Ciò che conta, quindi, è l’attivazione generale che provoca un video. Dobbiamo arrenderci: continueremo a guardare ossessivamente il micetto che sbaglia un salto. Ma perché twittarlo o postarlo su Facebook? «Perché sentiamo il bisogno di far parte di una stessa comunità», risponde Guadagno.
A questo si aggiunge l’affermazione della nostra identità, o meglio dell’immagine di noi che vorremmo gli altri vedessero. Che l’opinione degli altri sia centrale per noi lo dice il nostro stesso cervello. Lo ha dimostrato una squadra di ricercatori dell’università della California-Los Angeles e della Pennsylvania, realizzando un curioso esperimento raccontato nel 2013 su Psychological Science.
Durante uno scan con una risonanza magnetica funzionale, un’apparecchiatura capace di rilevare l’attività delle diverse aree cerebrali, 19 persone guardavano brevi video che descrivevano idee per serie tv. Il loro compito era valutare quali di queste puntate pilota avrebbero voluto condividere. La riflessione, raccontano i neuroscienziati, era legata a un’attività sostenuta in regioni del cervello legate alla ricompensa (corpo striato) e alla mentalizzazione (giunzione temporoparietale e corteccia prefrontale), la capacità di immaginare le preferenze altrui. Quando scegliamo se condividere un contenuto, quindi, non possiamo fare a meno di riflettere su cosa ne penseranno gli altri.
Negli ultimi anni continua a crescere il numero degli studi sulla viralità, ma alla domanda «Quando un contenuto diventa virale?» la risposta dei ricercatori è sempre la stessa: non siamo in grado di prevederlo. Neanche affidarci al potere dei vip dà sicurezza. «Il mondo della ricerca è diviso tra chi crede che non si possa arrivare alla viralità senza celebrità e chi invece pensa sia ininfluente», conclude Gonçalves. «Probabilmente la verità è nel mezzo. Molti contenuti sorgono spontaneamente dal basso, ma i media e le celebrità contribuiscono a renderli più popolari, o almeno a velocizzare il processo».
EPPURE QUALCUNO È CONVINTO di riuscire, almeno in parte, a rendere virale un contenuto. È l’informatico Walter Quattrociocchi, che negli ultimi mesi ha pubblicato studi sulla disinformazione online analizzando anche la pagina Facebook La stessa foto di Toto Cutugno ogni giorno. «È impossibile prevedere se un contenuto diventerà popolare a livello globale, ma si può ragionare su numeri più ristretti», racconta. Quattrociocchi e il suo team studiano infatti i cluster omofili, gruppi di persone riunite da interessi comuni. Hanno analizzato 1,2 milioni di profili Facebook italiani, divisi tra chi metteva like su pagine dedicate alla scienza e chi preferiva le fanpage cospirazioniste, dimostrando che i contenuti più virali sono quelli in linea con le proprie idee. «In sostanza, se vuoi che una notizia sia molto condivisa da un gruppo devi proporre un contenuto che non li spacchi, ma che li unisca. Inutile quindi postare una foto di scie chimiche sulla pagina di Wired, meglio stimolare un gruppo più propenso a cadere nella bufala, come la pagina del Movimento 5 Stelle». Il segreto per ottenere un contenuto davvero virale, quindi, sarebbe cercare di coinvolgere gli interessi di un insieme di persone molto numeroso con una foto che richiami l’attenzione su un tema di facile comprensione e che coinvolga tutti, senza alcun tipo di barriera. Di che colore lo vedevi il vestito, poi? — Andrea Gentile