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 2015  maggio 09 Sabato calendario

ABU, 8 ANNI, ALLA FRONTIERA IN UN TROLLEY

MADRID Abou ha solo 8 anni ma sa già che ci si può giocare la vita per entrare nella fortezza Europa. Sa che, se non si può lasciare l’Africa e tentare di raggiungere la famiglia dall’altro lato dello Stretto, se non si può sperare in un futuro migliore, tanto vale morire asfissiato.
Occhi grandi neri, pelle come ebano, Abou è un ragazzino della Costa d’Avorio sveglio, smilzo e flessuoso come un giunco. Si è lasciato rinchiudere dal papà in una valigia rigida, senza prese d’aria, e ha affidato la sua sorte al destino: «Non ti preoccupare, ce la farai, poi staremo finalmente assieme».
Fatima E. Y. H., 19 anni, è nata fra le vecchie case diroccate e le ruspe del nuovo cemento a Castillejos, vicino Tangeri. Ed è cresciuta vedendo la gente rischiare tutto e morire per passare la benedetta frontiera del Tarajal. Per attraversare quelle poche centinaia di metri che dividono il paradiso dall’inferno nell’enclave spagnola di Ceuta, in Marocco, come Melilla avamposto inespugnabile per i flussi di migranti provenienti dall’Africa sUbsahariana. Fatima ha forse fatto qualche “trapiceo”, piccoli commerci o contrabbandi, trasportando pacchi o valige per conto terzi dall’altro lato della frontiera, per guadagnare qualche euro. Solo che, questa volta, la paura quasi la paralizzava.
LA PAURA
E non era solo per il peso del trolley con le ruote. Quando aveva ormai già superato la barriera della gendarmeria marocchina ed era in terra di nessuno, fra le due altissime reti metalliche che la separavano dal posto di controllo spagnolo, Fatima è diventata nervosa. Si è guardata attorno, ha lasciato la valigia accanto allo scanner del metal detector, senza avere il coraggio di caricarla sul rullo. Gli agenti della guardia civile, pur abituati a scovare corpi neri ammassati, occultati nei doppi fondi di camion o fra le ruote dei tir, hanno mangiato la foglia. Pensavano che trasportasse un carico di droga e le hanno ordinato di aprire il bagaglio.
Lei non si è mossa, ma il trolley è intanto passato ai raggi X. Come un pitone di carne umana, arrotolato su se stesso, c’era rinchiuso il bambino dalla pelle d’ebano. Quando gli agenti hanno aperto la valigia, la sua testa è sbucata fra un paio di magliette arrotolate, lasciando gli agenti senza parole: «Je m’appelle Abou», mi chiamo Abou. Era spaventato ma stava bene, nonostante la mancanza di os sigeno. Non conosceva Fatima, che ha spiegato che solo tentava di riportare il bambino alla madre, che vive in Spagna e, invece, secondo gli agenti era stata pagata per fare da corriere. Abou è stato affidato ai servizi sociali del comune di Ceuta sotto tutela.
Fatima è stata fermata, ma non ha aperto bocca. Era mezzogiorno. Un’ora e mezza dopo, il papà di Abou è stato intercettato mentre tentava di passare la stessa frontiera. Stessi tratti fisici e stessa origine, la Costa d’Avorio. Stesso nome, Abou. Gli agenti gli hanno chiesto da dove venisse: «Dal Marocco – ha risposto in spagnolo – ma vivo a Las Palmas di Gran Canaria», ha aggiunto mostrando il documento di residenza. «Ho moglie, ma è in Europa, e due figli», ha spiegato.
«E’ questo uno dei suoi figli?», gli hanno chiesto gli agenti mostrandogli una foto identificativa scattata poco prima al bambino nella valigia. «Sì», ha risposto il padre, di 42 anni. «Volevo soltanto portarlo a vivere con me alle Canarie». Il padre, secondo la Ong Caminando Fronteras, era arrivato già da tempo in Spagna su una barcaccia, sbarcato alle Canarie e, dopo una lunga permanenza in un centro di detenzione temporanea, era finalmente riuscito ad avere un permesso di residenza. L’uomo è stato arrestato, come Fatima, che non ha aperto bocca nemmeno davanti al magistrato. Abou è in un centro di accoglienza per minori, in attesa che il magistrato della procura minorile decida per la sua sorte. E’ vivo, è riuscito a entrare in territorio europeo. Ma il suo lungo viaggio non è finito e si sente sperduto, perché non sa se e quando riuscirà a ricongiungersi con il papà e la mamma.