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 2015  maggio 10 Domenica calendario

IL DEBITO SUL BURRO DI GHEDDAFI SCATENA LA CACCIA AI TITOLI LIBICI

Burro. Tonnellate di burro mai pagate. E adesso, dopo quasi quindici anni e due sentenze favorevoli, l’azienda piemontese Inalpi della famiglia Invernizzi vuole i suoi soldi ed è pronta a pignorare i dividendi che i libici incasseranno da Unicredit. La mossa legale trapela dal fitto carteggio degli avvocati dell’azienda con Montetitoli, Euroclear, Société Générale, Unicredit e infine Consob. Un rimbalzo continuo, fino a pochi giorni fa, per capire dove e da chi andare ad aggredire il patrimonio mobiliare dello Stato libico. Sulle lettere c’è la firma degli avvocati Stefano Grassani e Deborah Bolco dello studio «Pavia e Ansaldo». «Sì, siamo già partiti con gli atti di pignoramento sui beni rintracciabili dello Stato libico in Italia e siamo pronti anche — afferma Grassani — a chiedere che Unicredit blocchi il pagamento del dividendo al gruppo libico». L’assemblea della banca è mercoledì prossimo.
La cifra, tutto sommato, è modesta ma se l’azione di esecuzione forzata sul patrimonio della Libia andrà fino in fondo (e con due sentenze favorevoli è a buon punto) si crea un precedente molto importante. Dal canto loro i libici sembrano essersi eclissati, per ora, da questa vicenda.
Gli Invernizzi si portano dietro dal 2001 nei bilanci dell’Inalpi, senza mai svalutarlo, il credito originario con Tripoli: 3 milioni (poi lievitati a 5). Poca roba, tutto sommato, per i conti di un’azienda che ha una struttura patrimoniale solida e un fatturato intorno ai 120 milioni cui contribuisce principalmente la vendita di latte in polvere (con un grande cliente come Ferrero) e poi burro e formaggi (fettine di latte) di uso quotidiano.
Poco ma non mollano. La partita di burro consegnata anni fa nei porti di Tripoli e Misurata non è stata ancora pagata. Il committente era la General Dairies and Products company (Gdp), creata dal governo di Tripoli negli anni 70 per centralizzare l’importazione e commercializzazione dei prodotti lattiero-caseari. Partecipando ai bandi l’Inalpi si era aggiudica una fornitura molto rilevante: 7-8 milioni annui di burro, sia per uso comune che come base per fare il latte. «Era previsto e regolarmente fatturato — dice Ambrogio Invernizzi, uno dei fratelli alla guida dell’azienda — anche un 10% all’intermediario libico attraverso una società svizzera». A un certo punto (siamo nel 2001) l’intermediario sparisce, «arrestato, ci dicono, indicandoci un conto svizzero dove pagare il 10%». Ma senza annullare il contratto precedente. La “pratica” ai tempi di Gheddafi era talmente diffusa che in Svizzera ci sarebbero tuttora conti ricchissimi, in parte «orfani», alimentati con le «creste» di Stato. Gli Invernizzi non ci stanno a pagare un ulteriore 10% in Svizzera. Vengono convocati a Tripoli, in un clima tutt’altro che sereno. Annusata l’aria ripartono dopo poche ore. E da lì comincia la battaglia legale per ottenere il corrispettivo dell’ultima fornitura. A oltre dieci anni dai fatti, nel 2013 il tribunale di Saluzzo (Cuneo) con una sentenza passata in giudicato condanna la Gdp a pagare l’Inalpi. Il problema è che la società libica nel frattempo è sparita: liquidata e chiusa. E allora? La palla torna ai legali. Lo scorso luglio riescono a ottenere dal tribunale di Cuneo (con l’ambasciata libica assente) una sentenza che in sostanza dice: la Gdp era un’emanazione dello Stato libico il quale perciò è tenuto al risarcimento dei danni. E così tra gennaio e maggio 2015, pur con la loro modesta pretesa da 5 milioni, gli Invernizzi puntano dritti verso Piazza Affari (Unicredit, Finmeccanica, Juventus, Eni) e i conti bancari (Unicredit, Intesa, Bnp Paribas, Credit Agricole, Banca Ubae, Abc International Bank)) perché è il patrimonio libico in Italia che va «attaccato». Unicredit per prima perché è la partecipazione più rilevante (oltre il 4%) e notoria, dichiarata ufficialmente alla Consob per il 2,9%, in capo a organi statali come la Central Bank of Libya e sue emanazioni e poi Unicredit distribuisce il dividendo. Pignorare le azioni è però un labirinto senza uscita perché di fatto, secondo gli avvocati, non si sa dove sono depositate. Ma il dividendo lo paga Unicredit e i libici ne incassano per il corrispettivo di alcune decine di milioni. Agli Invernizzi ne bastano cinque e proveranno, attraverso il tribunale, a costringere Unicredit a bloccare il dividendo dei libici e farsi pagare finalmente quel burro del 2001.