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 2015  maggio 10 Domenica calendario

IL PESO DEL PASSATO

Sarebbe bello poter parlare di mercato del lavoro con i dati che «Il Sole 24 Ore» aveva chiesto di conoscere, ma purtroppo il Ministero ha risposto al nostro appello del 2 aprile solo a metà: ha reso pubblici alcuni dati mensili relativamente recenti, ma non ha ancora fornito le serie storiche complete (da gennaio 2011) che sarebbero utili per capire che cosa sta succedendo. In attesa che qualcosa finalmente si muova, dobbiamo accontentarci dei dati mensili Istat sulle forze di lavoro, che sono meno analitici ma in compenso si riferiscono a tutta la popolazione. Ebbene, che cosa possiamo dire in base ai dati Istat?
La cosa più interessante, se non altro perché poco nota, è che il punto di svolta nel ciclo dell’occupazione c’è già stato da un pezzo, e risale a circa un anno e mezzo fa, ai tempi del governo di larghe intese. È allora (settembre 2013) che l’occupazione totale raggiunse il suo punto di minimo, con la distruzione di più di 1 milione di posti di lavoro rispetto al picco del 2008, ed è da allora che l’occupazione aveva ripreso lentamente a salire. Questo lento recupero è andato avanti più o meno fino alla fine dell’anno scorso, ma si è bloccato nei mesi a cavallo fra il 2014 e il 2015. Se proiettiamo sul 2015 il trend osservato nel 2014, e lo confrontiamo con l’andamento dell’occupazione totale, il risultato è che a marzo 2015 (ultimo dato disponibile) ci sono 175mila posti di lavoro in meno rispetto a quelli che ci si poteva aspettare se le tendenze in atto nel 2014 fossero proseguite inalterate. E infatti il numero di disoccupati continua ad aumentare, sia pure a un ritmo molto meno rapido di un anno fa.
Le cose vanno un po’ meglio se, anziché guardare al numero di occupati “nominali” (che includono i lavoratori in cassa integrazione) guardiamo al numero di occupati “reali”, correggendo per le ore di cassa integrazione. Ma anche in questo caso resta il fatto che, nei primi mesi dell’anno, il trend dell’occupazione è decrescente.
Perché?
La mia impressione, perdonate la sincerità, è che nessuno lo sappia davvero, e che – ammesso che l’Istat non abbia preso una serie sistematica di abbagli – quello dell’andamento recente dell’occupazione in Italia sia un vero puzzle, un rompicapo che bisognerà ingegnarsi di sciogliere se vogliamo andare avanti. Quello che dobbiamo considerare, infatti, è che questa “gelata di primavera” si è prodotta quando non solo il motore dell’occupazione era già ripartito da circa un anno ma, come ha fatto notare pochi giorni fa Guido Gentili, praticamente tutti i venti possibili erano straordinariamente favorevoli. Favorevole era il crollo del prezzo del petrolio. Favorevole era la svalutazione dell’euro.
Favorevole era il Quantitaive Easing di Draghi. Favorevole era ed è l’Expo di Milano. E favorevoli, al di là del giudizio politico che ognuno può darne, erano una raffica di provvedimenti attuati dal governo Renzi: decreto Poletti, riduzione Irap, decontribuzione per i neo-assunti, contratto a tutele crescenti, per non parlare del bonus da 80 euro. Insomma Renzi è arrivato quando l’occupazione stava già (lentamente) crescendo, e ha preso decisioni che si possono criticare da mille punti di vista ma cui è difficile attribuire un effetto negativo sull’occupazione. Cionondimeno, le cose sul mercato del lavoro hanno smesso di progredire, per usare un eufemismo.
Che è successo, dunque?
Niente, mi viene da dire. Forse non è successo niente. Forse la realtà è che un po’ tutti (me compreso, che passo per ultra-pessimista), abbiamo sottovalutato la gravità dell’infarto che ha colpito l’Italia in questi anni di crisi. Forse non ci stiamo rendendo conto, o non vogliamo ammettere, che il nostro paese nella lunga crisi iniziata nell’estate del 2007 ha fatto pochissimo di quel che andava fatto. E proprio perché ha fatto pochissimo, ora non è in grado di sfruttare il vento che soffia nelle sue vele. È come se, alzatosi il vento della ripresa, all’improvviso ci accorgessimo che le nostre vele sono piene di buchi, e che il vento le attraversa anziché gonfiarle.
Come si spiega, altrimenti, il fatto che, con tutte le istituzioni internazionali e i centri studi che dicono che i venti favorevoli di questo momento valgono almeno 1 punto di crescita in più, noi prevediamo che l’impatto sulla nostra economia sia impercettibile, ossia compreso fra lo 0.1% (Governo) e lo 0.2% (Istat)?
Come è possibile che sia il governo sia l’Istat prevedano, per la fine di questa legislatura (ossia dopo 4 anni di cura-Renzi), un numero di disoccupati che ancora sfiora i 3 milioni di unità?
Come facciamo a essere ottimisti se queste cifre sconvolgenti stanno scritte nei documenti ufficiali?
Come si fa a esortare a investire se la domanda interna langue e i margini delle imprese sono ridotti a minimo storico dal 1983?
Come si può pensare di competere con gli altri paesi, se in Italia la produttività è ferma da 15 anni?
Arrivato a questo punto dell’articolo, sento già un altro venticello, quello di quanti non mancheranno di accusarmi di essere un professionista del ‘non ce la faremo mai’ (così Renzi all’apertura dell’Expo).
Vorrei rispondere a questo venticello, dicendo che ci sono due tipi di pessimismo: il pessimismo sul futuro, e il pessimismo sull’eredità del passato. Io del futuro non so nulla, ma penso che l’eredità del passato, ovvero l’inerzia dell’ultimo quarto di secolo, sia stata catastrofica per il futuro dell’Italia, e che la politica, tutta la politica, farebbe meglio a prenderne atto anziché demonizzare chi ne osserva le conseguenze. E come ho trovato fuori luogo, ieri, ogni trionfalismo per qualche posto di lavoro in più, poi puntualmente scomparso, trovo non sia proprio il caso, oggi, di leggere nel registro del presente i segnali che l’imprevista frenata dell’occupazione porta con sé: quei segnali non parlano dell’oggi, ma sono l’eco dell’incoscienza di questi lunghi anni.
Ecco perché la contrapposizione fra pessimisti e ottimisti è, in fondo, un gioco sterile. Il punto non è quel che pensiamo sul nostro futuro ma se abbiamo, oppure no, voglia di prendere atto fino in fondo delle omissioni del nostro passato. E di lì ripartire.
Luca Ricolfi, Il Sole 24 Ore 10/5/2015