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 2015  maggio 10 Domenica calendario

NEI TACCUINI DI FRUTTERO

ROCCAMARE (GROSSETO)
Un pezzetto alla volta, mai tutta insieme. La vita devi guardarla così, altrimenti ti scoraggi e smetti di vivere. Carlo Fruttero non faceva che ripeterlo alla figlia Carlotta. Un passo dietro l’altro, poi si vede. In fondo anche per la scrittura funzionava allo stesso modo. Un taccuino dietro l’altro, centinaia e centinaia di block notes, migliaia di pagine a quadretti che ora traboccano dalle scatole di Ikea nello studio di Roccamare. Lui non s’era mai fermato a guardarli tutti insieme, ancora meno a farne un monumento, forse per non smettere di scrivere, anche se a tratti ne fu molto tentato. Il taccuino per Fruttero era come la lancia per don Chisciotte o la lampada per il Genio: una protesi o una metafora dell’artigiano letterario, anche un rifugio sereno e un luogo dove vivere una vita parallela, colorata di ottimismo e sense of humour. Perché la vita vera non appariva poi così leggera, ma questo era un segreto da non lasciarsi sfuggire. Meglio tuffarsi dentro i quaderni che ora custodiscono tutti i suoi libri, scritti da solo o in ditta con Lucentini, da La donna della domenica a Mutandine di chiffon, e poi i diari di viaggio, gli incontri con Beckett che si fidava solo delle sue traduzioni, perfino il journal sui primi passi dei nipotini. Scriveva ovunque, Fruttero. In giardino sotto l’ampio cedro, o nella vecchia bergère celeste polvere in soggiorno, o appoggiato sul tavolino fiorentino della sua piccola stanza. Lo faceva nella sua ultima casa in Maremma come nelle precedenti abitazioni torinesi. Inavvicinabile, specie se con il cappello in testa. Chino su quei fogli in silenzio finché un suo segnale consentiva l’accesso. Allora metteva da parte il suo taccuino di creature lievi per immergersi nell’ombra calata all’improvviso sulla biondina allegra che aveva sposato. Una «grazia da libellula», così la ritrasse in un racconto, perduta dietro i richiami della malinconia. «Sono come schizofrenico», confessò una volta alla figlia che condivideva con lui la depressione di Maria Pia. Divertente e ironico nella scrittura, «la lama spietata del tedio assoluto» tra le mura di casa. Tentò di esorcizzarla raccontandola in un romanzo, Enigma in luogo di mare , con quel personaggio femminile che ossessivamente conta e riconta le pilloline nella scatola, cambia continuamente idea, si veste per andare a fare due passi e poi davanti all’ascensore s’impunta e torna indietro. L’unico libro che la moglie, sua sapiente lettrice, non riuscì a concludere.
Quante storie scorrono nei taccuini, anche una storia di divorzio. Su fogli bianchi strappati da un block notes è appuntata la brutta copia di una lettera, forse la più difficile da scrivere. «Caro Einaudi», e un maremoto di cancellature, segnacci, ripensamenti. È la sua lettera di dimissioni dalla casa editrice. Nel 1961 Fruttero ha trentacinque anni, è un brillante redattore non di un’azienda editoriale ma del tempio della cultura italiana, e quell’addio all’imperatore Giulio non deve essere facile. Ma ha già scelto Mondadori e la collana di fantascienza Urania. Nella lettera farfuglia di “maggiore libertà” per la sua “vita privata” e cose simili.
La verità è che lui in via Biancamano non si era mai sentito a suo agio. Ernesto Ferrero lo ricorda in raccapriccianti sandali di cuoio fatti con le sue mani che contrastano con le morbide giacche inglesi del padrone. Di certo non era il tipo dell’intellettuale engagé. In Night of the Telegram , avrebbe narrato come vissero in casa editrice l’invasione sovietica di Budapest: lui rincorso da Giulio Einaudi che gli fa tradurre in inglese un suo fumoso testo indirizzato niente meno che alle Nazioni Unite. «L’aria fritta è intraducibile», annota Fruttero. «Chiunque abbia frequentato la lingua e la cultura inglesi sa che un appello compilato nel gergo della sinistra italiana non ha alcuna possibilità di trasposizione». Assistito da Giulio Bollati, il giovane editor riuscì a portare a termine la sua storica missione. Ma cinque anni dopo avrebbe preferito uscire definitivamente dalla Storia.
Il segreto dei taccuini è anche in quella visione accondiscendente della vita, «di compassione per ogni concepibile debolezza e contraddizione», sentimento che lo fece innamorare di Franco Lucentini. Dalle carte spuntano le lettere scherzose dell’amico che gli propone “corsi di alfabetismo” per le madame torinesi, inclusa la signora Einaudi. Si erano piaciuti sin dall’inizio, uniti dal senso dell’umorismo e da «una disastrosa tenerezza verso le minime cose del creato». Nonostante qualche difficoltà negli esordi — le lettere alla moglie pubblicate qui a fianco ne sono mite testimonianza — formarono la ditta più rimpianta del Novecento letterario. Solo il volo di Lucentini sarebbe riuscito a separarli. Per Carlo non fu una sorpresa. Quando la mattina del 6 agosto del 2002 Carlotta gli disse di Franco, lui si limitò a chiedere come. Come aveva fatto. «Si è lasciato cadere giù dalle scale». «E certo, non gli hanno dato alternative. Ha dovuto fare da sé, come sempre, fino alla fine. Povero Franco». Suicidio da bricoleur, annotò sul taccuino. E poi più o meno argomentava: anche nella scrittura trovava sempre un modo per andare avanti, non sarà stato un problema farsi largo in una tromba delle scale così stretta. Lo disse anche nell’orazione funebre e ancora oggi nel suo studio è poggiata la cartolina che gli mandò Ceronetti: «Senza pedali d’organo eppure immediatamente ricevibile da tutti. Un sermo funebre esemplare». Sull’altro lato della cartolina, un monaco tibetano dalla faccia un po’ scimmiesca. «Toh, ma questo è Franco», fu la reazione di Fruttero nel riceverla. Non lo videro mai piangere, ma in quei giorni andava spesso a passeggiare da solo in pineta.
I taccuini avevano anche una funzione simbolica. Quando ne perse uno, tra i cuscini del divano, pensò che fosse arrivato il momento di chiudere. Accadde dopo la morte di Lucentini, nel periodo in cui faticava a imboccare nuove strade. Finalmente ci era riuscito, ma quel maledetto block notes non si trovava più. «Un segnale», decretò lui al telefono con la figlia. «Non devo scrivere più». Fin quando il quaderno rispuntò da sotto il sedere di un’ospite. Sarebbe diventato Donne informate dei fatti, il primo romanzo scritto dopo la morte di Franco. Poi venne il momento di metter da parte i taccuini, sopraffatti da due infarti e cinque pacemaker. Ma grazie alla infaticabile «Olinda» — così si divertiva a chiamare Carlotta, ispirato dai diabolici assassini di Erba — Fruttero continuò a passeggiare nella fantasia, dettando alla figlia le schede dei capolavori prediletti. L’amatissimo Flaubert, insieme a Manzoni e a Pinocchio. E poi Tucidide, Plutarco, e via via fino ad arrivare ai contemporanei. Un pezzo alla volta, ripercorreva la sua vita da lettore. Sempre più stanco, obbligato al letto, ormai al termine del viaggio. Ma meglio non guardare la fine, non tutta insieme, altrimenti ci si spaventa. Ancora un po’ per volta, un racconto dietro l’altro per allontanarla, la fine, in fondo aveva fatto lo stesso Sherazade. «Abbiamo dimenticato la scheda su Melville! Domani mattina te la detto», disse a Carlotta prima di addormentarsi. Chissà se ha sognato Moby Dick.
Simonetta Fiori, la Repubblica 10/5/2015